08.05.2022 Testo della Predica - Predigttext


Dove e quando?


Domenica, 8 maggio 2022

ore 11:00

Chiesa San Francesco d'Assisi

Via San Francesco d'Assisi 11

Torino


Culto per la domenica di Jubilate

Atti degli Apostoli 17,22-28a

Grafica - Graphik: Layer-Stahl
Grafica - Graphik: Layer-Stahl

Wo und Wann?


Sonntag, 8. Mai 2022

11:00 Uhr

Kirche San Francesco d'Assisi

Via San Francesco d'Assisi 11

Torino 


Gottesdienst Jubilate

Apostelgeschichte 17,22-28a 



Testo della Predica


Paolo, stando in piedi in mezzo all'Areòpago, disse: «Ateniesi, vedo che sotto ogni aspetto siete estremamente religiosi. Poiché, passando, e osservando gli oggetti del vostro culto, ho trovato anche un altare sul quale era scritto: Al dio sconosciuto. Orbene, ciò che voi adorate senza conoscerlo, io ve lo annuncio. Il Dio che ha fatto il mondo e tutte le cose che sono in esso, essendo Signore del cielo e della terra, non abita in templi costruiti da mani d'uomo; e non è servito dalle mani dell'uomo, come se avesse bisogno di qualcosa; lui, che dà a tutti la vita, il respiro e ogni cosa. Egli ha tratto da uno solo tutte le nazioni degli uomini perché abitino su tutta la faccia della terra, avendo determinato le epoche loro assegnate, e i confini della loro abitazione, affinché cerchino Dio, se mai giungano a trovarlo, come a tastoni, benché egli non sia lontano da ciascuno di noi. Difatti, in lui viviamo, ci moviamo, e siamo. 

Cara comunità!

Oggi vi confesso una cosa che finora ho sempre tenuto segreta. Forse però qualcuno tra di voi lo ha già intuito Ma non l’ho mai detto apertamente:

negli ultimi dodici anni qualche volta invece di scrivere una predica totalmente nuova ne ho aggiornata una che avevo già tenuto in precedenza.

Questo tra pastori non è del tutto inconsueto. Rifacendosi al Salmo 42,1 dove si dice “Come la cerva desidera i corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio”, il riutilizzo di prediche viene chiamato “portare una vecchia cerva all’acqua fresca”.

È proprio quello che farò anche oggi, ma in maniera un po’ diversa. Vi leggerò adesso la predica che ho tenuto esattamente otto anni fa. Otto anni fa sono stato eletto decano della nostra Chiesa. E una settimana fa ho passato questo incarico al mio successore.

La predica che ho tenuto otto anni fa si riferisce alla mia elezione di allora. Non l’ho modificata perché, anche se nel frattempo sono passati otto anni, dopo la fine del mio mandato ne posso soltanto confermare il contenuto.

Ecco qui ciò che ho testimoniato e predicato otto anni fa e adesso predico e testimonio di nuovo:

 

“Dio non è lontano da ciascuno di noi”. È questo il senso della storia che abbiamo sentito. È davvero così che Dio non è lontano da nessuno di noi?

Nella mia vita conosco momenti nei quali mi sono sentito più vicino a Dio e momenti nei quali mi sono sentito più distante da lui. 

Cerco sempre, perlomeno nel mio piccolo, di vivere una specie di vita spirituale, cioè di praticare certe forme di spiritualità. Il culto la domenica è importante per me, la lettura di un versetto biblico di Un giorno una parola tutte le mattine, un breve ringraziamento prima di mangiare, una preghiera prima di addormentarmi nella quale ripongo nelle mani di Dio la giornata. Non è molto, ma come specie di “razione di emergenza” questo mi aiuta durante la giornata a non dimenticare completamente che Dio c’è.

A volte è difficoltoso: leggo un versetto, ma non mi dice niente, non fa scattare niente in me. Di tanto in tanto cerco allora di lasciarmi coinvolgere dal passo della Bibbia rileggendo il versetto nel suo contesto. Può succedere, però, che quello che leggo rimangano parole che non mi toccano. Una storia di 2.000 anni fa… come mi può riguardare?

Oppure prego ed è come parlare nel vuoto. In momenti del genere la preghiera mi sembra assurda. Ma che cos’è che sto facendo? Perché mai dovrei parlare al vento? Preghiere impresse nella memoria come il Padrenostro in quei momenti danno l’impressione di essere formule vuote.

Ci sono, però, anche altri momenti, momenti nei quali sono certo che c’è un Dio… e anzi di più: non solo che sia presente, ma anche che sia un interlocutore con il quale mi posso mettere in contatto, con il quale posso avere a che fare, del quale mi posso fidare, un interlocutore che è in grado di guidarmi e al quale per questo mi posso affidare.

Sabato scorso – così ho detto otto anni fa – sono stato eletto dal Sinodo Decano della nostra Chiesa. Durante il cammino per arrivarci ho fatto tutte e due le esperienze: l’esperienza del chiedere con fatica senza ricevere risposta, ma anche l’esperienza della vicinanza viva di Dio. Il cammino è stato piuttosto lungo. Già due anni prima ero stato messo a confronto con il fatto che la Chiesa avrebbe avuto bisogno di un nuovo Decano e che non ci sarebbero stati tanti candidati a disposizione.

In quei due anni ci avevo riflettuto parecchio se candidarmi o no. Una gran voglia non ce l’avevo, sono stati piuttosto dei motivi di raziocinio che mi hanno spinto a occuparmi della candidatura. Qualcuno lo deve pur fare in fondo e quando mi è stato chiesto, non avevo quasi nessuna ragione per non candidarmi. A volte è stato davvero opprimente.

Ma ci sono stati anche dei punti nei quali qualcosa si è illuminato. Mi ricordo una Santa Cena alla quale ho partecipato in cui si è fatta strada una sensazione del tipo “Va tutto bene; non devi avere paura; percorri la tua strada, sono con te; vedrai dove ti porterò”.

Durante l’elezione stessa mi sono sentito sostenuto in maniera strana. Certo, alla fine ero in un certo senso emozionato, ma sotto l’emozione c’era una profonda calma. In fondo non ho saputo fino alla fine che cosa avrei preferito, essere eletto o non essere eletto, ma né l’una né l’altra cosa mi facevano paura. 

Una volta eletto, ho potuto fare la magnifica esperienza di ricevere una forza per fare le cose che prima non mi sarei potuto immaginare. Dopo essere stati al bar dell’albergo fino a mezzanotte il giorno dell’elezione, ho scritto una breve predica in italiano per il culto di insediamento della quale perlomeno io ero soddisfatto. E anche in altri punti sono stato in grado di reagire a esigenze inaspettate senza che mi ci fossi preparato. Da un certo punto di vista, almeno al momento – così dissi otto anni fa – nonostante i nuovi compiti, ho piuttosto l’impressione che mi sia stato tolto un peso anziché avere un peso troppo pesante da portare.

Perché racconto questo?

Da una parte di certo per comunicare oggi – cioè l’11 giugno 2014 – per così dire ufficialmente nel culto che sono diventato il nuovo Decano della nostra Chiesa, un fatto che avrà anche certe conseguenze per la comunità, ma questo non è il motivo fondamentale.

Lo racconto soprattutto perché quello che ho vissuto in quell’occasione per me è un’esperienza di fede… e proprio questo, alla fine di questo servizio guardando a tutto il mandato, lo posso solo confermare. Certamente le mie esperienze si possono interpretare anche in altro modo. Forse con il fatto che un più alto tasso di adrenalina sprigiona altre forze e che questo scatena delle sensazioni di gioia… o che so io. Comunque sia, per me rimane un’esperienza di fede. Un’esperienza che mi ha confermato – non per la prima volta, già più volte in passato, ma stavolta in modo particolarmente chiaro – che vale la pena chiedere a Dio e cercarlo. E anche quando da parte di Dio non si percepisce assolutamente niente, così come a volte è successo a me prima. Che “Dio non sia lontano da ciascuno di noi” non dipende in fondo da quanto ognuno e ognuna di noi sente la sua presenza. Ci sono i periodi nei quali ci si sente come nel deserto dove non cresce niente e tutto è difficile, dove però si può preparare qualcosa che sarà visibile soltanto più tardi. 

Forse lo posso esprimere in questo modo: ho ricevuto una conferma personale – per la quale sono molto riconoscente – del fatto che vale la pena cercare il vero Dio.

E con questo arrivo alla storia dell’Apostolo Paolo nell’Areòpago ad Atene. 

Anche Paolo agisce sulla base di un’esperienza personale, un’esperienza che è sicuramente di gran lunga di dimensione più grande – o più profonda o come dir si voglia – della mia. Paolo vive un’esperienza con il Dio vero, vivo, che ha fatto di lui, che era un persecutore dei cristiani, un Apostolo. E ora racconta di questo Dio. Lo descrive come il creatore del Cielo e della Terra, come colui che dà la vita e il respiro agli uomini. Inoltre però lo descrive come qualcuno al quale la sua creazione non è indifferente, piuttosto come uno che cerca il contatto con gli uomini che ha creato. Ha addirittura nostalgia degli esseri umani. In fondo lo scopo della Creazione è che gli uomini “cerchino Dio, se mai giungano a trovarlo, come a tastoni”“Difatti, in lui viviamo, ci moviamo, e siamo”.

Questo lo racconta alla gente ad Atene che è senz’altro religiosa: “vedo che sotto ogni aspetto siete estremamente religiosi”, Paolo inizia così il suo discorso rivolto agli Ateniesi, che, però, venerano altri dèi di quello che Paolo ha conosciuto. Hanno un’altra idea di Dio di quella che ha Paolo: immaginano i loro dèi come potenze maschili o femminili con precise competenze. Un dio è responsabile per il cielo, un altro per la guerra, esiste una dea per la fertilità, un’altra per la fortuna. E siccome non si può mai sapere se si è pensato proprio a tutti gli dèi, e può darsi che un dio non si senta riconosciuto e quindi si vendichi sugli uomini, hanno edificato un altare anche al “dio sconosciuto”. Proprio in questo punto Paolo prende la parola e dice: “ciò che voi adorate senza conoscerlo, io ve lo annuncio”.

Evidentemente non si tratta soltanto di essere religioso. La religione può anche rendere schiavi. Alcuni dèi si aspettano che gli uomini li servano come schiavi… è così ancora oggi se pensiamo al Dio Denaro e del capitale al quale nelle grandi città vengono edificati i più grandi templi ancora adesso.

In confronto il Dio che annuncia Paolo è poco appariscente. “Non abita in templi”, “non è servito dalle mani dell’uomo”; si lascia piuttosto cercare dagli uomini come un amante timido “se mai giungano a trovarlo, come a tastoni”. Anche se “Dio non è lontano da ciascuno di noi”, spesso non si recepisce niente di lui. Anche se “in lui viviamo, ci moviamo, e siamo”, abbastanza spesso non ne recepiamo nulla. Si deve cogliere la sua traccia, non si devono ignorare le sue parole pronunciate a bassa voce, non si deve essere ciechi verso la ricerca di conquista d’amore che lui fa. A volte si nasconde o si mostra scostante come se non ne volesse sapere. Questo però soltanto perché non vuole costringere nessuno; perché essendo un grande amante vuole tutta la nostra dedizione, libera e incondizionata. E se noi ci affidiamo davvero a lui, allora il suo amore divampa in noi. 

Traduzione dal tedesco di Katia Cavallito

2014 - Einführung als Dekan - Insediamento da Decano Foto: Margit Müller
2014 - Einführung als Dekan - Insediamento da Decano Foto: Margit Müller
2022 - Einer geht und Einer kommt - C'è chi va e c'è chi viene Foto: A. Hagels-Bludau
2022 - Einer geht und Einer kommt - C'è chi va e c'è chi viene Foto: A. Hagels-Bludau

Predigttext


Paulus stand mitten auf dem Areopag und sprach: Ihr Männer von Athen, ich sehe, dass ihr die Götter in allen Stücken sehr verehrt. Ich bin umhergegangen und habe eure Heiligtümer angesehen und fand einen Altar, auf dem stand geschrieben: Dem unbekannten Gott. Nun verkündige ich euch, was ihr unwissend verehrt. Gott, der die Welt gemacht hat und alles, was darin ist, er, der Herr des Himmels und der Erde, wohnt nicht in Tempeln, die mit Händen gemacht sind. Auch lässt er sich nicht von Menschenhänden dienen wie einer, der etwas nötig hätte, da er doch selber jedermann Leben und Odem und alles gibt. 

Und er hat aus einem Menschen das ganze Menschengeschlecht gemacht, damit sie auf dem ganzen Erdboden wohnen, und er hat festgesetzt, wie lange sie bestehen und in welchen Grenzen sie wohnen sollen, damit sie Gott suchen sollen, ob sie ihn wohl fühlen und finden könnten; und fürwahr, er ist nicht ferne von einem jeden unter uns. Denn in ihm leben, weben und sind wir. 

Liebe Gemeinde!

Heute verrate ich Euch etwas, was ich bisher immer geheim gehalten habe. Vielleicht hat der Eine oder die Andere unter Euch es trotzdem schon geahnt. Aber öffentlich gesagt habe ich es nie: 

Ich habe in den vergangenen 12 Jahren gelegentlich Predigten nicht neu verfasst, sondern Predigten, die ich schon einmal gehalten habe, nur ein bisschen aktualisiert. 

Das ist unter Pfarrern nicht ganz unüblich. Auf der Grundlage von Psalm 42,1, wo es heißt „Wie der Hirsch lechzt nach frischem Wasser, so schreit meine Seele, Gott zu dir“ wird die Wiederverwendung von Predigten bezeichnet als „einen alten Hirsch zum frischen Wasser zu führen“.

Genau das werde ich heute auch tun. Aber ein bisschen anders als sonst. Ich werde Euch jetzt die Predigt vorlesen, die ich genau vor acht Jahren gehalten habe. Vor acht Jahren bin ich zum Dekan unserer Kirche gewählt worden. Und vor einer Woche habe dieses Amt meinem Nachfolger übergeben. 

Die Predigt, die ich vor acht Jahren gehalten habe, nimmt auf meine Wahl damals Bezug. Ich habe sie nicht verändert, denn auch wenn inzwischen acht Jahre vergangen sind, so kann ich nach dem Ende meiner Amtszeit, deren Inhalt nur bestätigen.

Hier also, was ich vor acht Jahren bezeugt und gepredigt habe und nun erneut predige und bezeuge: 

 

„Gott ist nicht fern von einem jeden unter uns.“ Darauf läuft die Geschichte, die wir gehört haben, hinaus. Ist das tatsächlich so, dass Gott nicht fern ist von einem jeden unter uns?

Ich kenne in meinem Leben Zeiten, in denen ich mich Gott näher gefühlt habe und Zeiten, in denen ich mich ferner von ihm gefühlt habe. 

Ich versuche immer, wenigstens ansatzweise so etwas wie ein geistliches Leben zu führen, also bestimmte Formen von Spiritualität zu praktizieren. Der Gottesdienst am Sonntag ist mir wichtig, die Lektüre der Losungen jeden Morgen, ein kurzer Dank vor dem Essen, ein Gebet vor dem Einschlafen, in dem ich den Tag zurück in Gottes Hände lege. Das ist nicht viel, aber als eine Art „eiserne Ration“ hilft  mir das, im Lauf der Tage nicht ganz zu vergessen, dass Gott da ist.

Manchmal ist das mühsam: Ich lese einen Bibelvers, aber er sagt mir nichts, löst nichts in mir aus. Gelegentlich versuche ich dann, mich von der Bibelstelle ansprechen zu lassen, indem ich den Vers in seinem Kontext nachlese. Aber es kann sein, dass das, was ich lese, Worte bleiben, die mich nicht berühren. Eine Geschichte von vor 2000 Jahren, was geht mich die an?

Oder ich bete und es ist wie ein Reden ins Leere. In solchen Momenten kommt mir das Gebet absurd vor. Was tue ich da eigentlich? Warum soll ich vor mich hin reden? Geprägte Gebete wie das Vaterunser haben in solchen Zeiten den Anschein, leere Formeln zu sein.

Aber es gibt auch andere Zeiten, Zeiten, in denen es mir plötzlich gewiss wird, dass da ein Gott ist – und mehr noch: nicht nur, dass er da ist, sondern auch dass er ein Gegenüber ist, mit dem ich in Verbindung treten kann, auf das ich mich einlassen kann, dem ich vertrauen kann, ein Gegenüber, das in der Lage ist, mich zu leiten und dem ich mich deshalb anvertrauen kann.

Am Samstag vor einer Woche – so habe ich vor acht Jahren gesagt – bin ich von der Synode zum Dekan unserer Kirche gewählt worden. Auf dem Weg dorthin gab es für mich beide Erfahrungen: die Erfahrung des mühsamen Fragens ohne Antwort aber auch die Erfahrung der lebendigen Nähe Gottes. Der Weg war ziemlich lang. Schon zwei Jahre zuvor bin ich damit konfrontiert worden, dass die Kirche einen neuen Dekan braucht und dass nicht viele Kandidaten dafür zur Auswahl stehen werden.

Ich habe in diesen zwei Jahren viel darüber nachgedacht, ob ich kandidieren soll. Große Lust hatte ich dazu nicht, es waren eher Vernunftgründe, die mich gedrängt haben, mich mit der Kandidatur zu beschäftigen. Irgendeiner muss es letztlich machen und wenn ich darauf angesprochen wurde, hatte ich kaum Argumente dafür, nicht zu kandidieren. Manchmal war das wirklich bedrängend.

Aber es gab auch Punkte, da leuchtete etwas auf. Ich erinnere mich an eine Abendmahlsfeier, an der ich teilgenommen habe. Da stellte sich so ein Gefühl ein wie: „Es ist alles in Ordnung. Du brauchst keine Angst zu haben. Geh deinen Weg, ich bin bei dir. Du wirst schon sehen, wo ich dich hinführe.“

Bei der Wahl selbst habe ich mich auf eine seltsame Weise  getragen gefühlt. Sicher, in gewisser Hinsicht war ich am Ende schon aufgeregt. Aber unter der Aufregung gab es eine tiefe Gelassenheit. Letztlich wusste ich bis zum Ende nicht wirklich, was ich lieber hätte, gewählt zu werden oder nicht gewählt zu werden. Aber es hat mir auch weder das eine noch das andere Angst gemacht. 

Als ich dann gewählt war, durfte ich die wunderbare Erfahrung machen, dass ich die Kraft bekam, Dinge zu tun, die ich mir vorher nicht vorstellen konnte. Nachdem wir am Wahltag noch bis Mitternacht in der Hotelbar gesessen haben, habe ich für den Einführungsgottesdienst eine Kurzpredigt auf Italienisch verfasst, mit der zumindest ich selbst zufrieden war. Und ich war auch an anderen Stellen in der Lage, unvorbereitet auf unerwartete Anforderungen zu reagieren. In gewisser Hinsicht habe ich – jedenfalls im Augenblick so sagte ich vor acht Jahren – trotz der vielen neuen Aufgaben mehr den Eindruck, als wäre eine Last von mir genommen als dass ich eine allzu schwere Last zu tragen hätte.

Warum erzähle ich das?

Einmal sicherlich deshalb, um heute – also am 11. Juni 2014 – sozusagen offiziell im Gottesdienst mitzuteilen, dass ich der neue Dekan unserer Kirche geworden bin, eine Tatsache, die ja auch gewisse Konsequenzen für die Gemeinde haben wird. Aber das ist an dieser Stelle nicht der entscheidende Grund.

Ich erzähle es vor allem deshalb, weil das, was ich da erlebt habe, für mich eine Glaubenserfahrung ist – und eben dies kann ich nach dem Ende dieses Dienstes im Blick auf die gesamte Dienstzeit nur bestätigen. Sicherlich kann man meine Erlebnisse auch anders interpretieren. Vielleicht so, dass ein erhöhter Adrenalinspiegel zusätzliche Kräfte freisetzt und das dies Glücksgefühle auslöst – oder wie auch immer. Für mich bleibt es trotzdem eine Glaubenserfahrung. Eine Erfahrung, die mir – nicht zum ersten Mal, sondern schon öfter, aber diesmal besonders deutlich – bestätigt, dass es sich lohnt, nach Gott zu fragen und zu suchen. Und zwar gerade auch dann, wenn von Gott gar nichts zu spüren ist, so wie es mir im Vorfeld gelegentlich gegangen ist. Dass „Gott nicht fern von einem jeden unter uns“ ist, hängt letztlich nicht daran, wieviel ein jeder und eine jede unter uns von ihm spürt. Es gibt die Zeiten, in denen man sich wie in der Wüste vorkommt, wo nichts wächst und alles nur mühsam ist, wo sich aber etwas vorbereiten kann, was erst später sichtbar wird. 

Vielleicht kann ich es so sagen: Ich habe – wofür ich sehr dankbar bin – eine persönliche Bestätigung dafür bekommen, dass es sich lohnt, nach dem wahren Gott zu fragen.

Und damit bin ich bei der Geschichte des Apostels Paulus auf dem Areopag in Athen. 

Auch Paulus handelt aufgrund einer persönlichen Erfahrung, einer Erfahrung, die sicherlich um mehrere Dimensionen größer - oder tiefer oder was auch immer - als die meine ist. Paulus hat eine Erfahrung mit dem wahren, mit dem lebendigen Gott, der aus ihm, einem Verfolger der Christen, einen Apostel gemacht hat. Und nun erzählt er von diesem Gott. Er beschreibt ihn als den Schöpfer des Himmels und der Erde, als denjenigen, der den Menschen Leben und Atem gibt. Darüber hinaus aber beschreibt er ihn als einen, dem seine Schöpfung nicht gleichgültig ist, der vielmehr Kontakt zu den Menschen sucht, die er geschaffen hat. Er sehnt sich geradezu nach den Menschen. Letztlich läuft der Zweck der Schöpfung darauf hinaus, dass die Menschen „Gott suchen sollen, ob sie ihn wohl fühlen und finden könnten“. … „Denn in ihm leben, weben und sind wir“.

Das alles erzählt er den Menschen in Athen, die durchaus religiös sind. „Ich sehe, dass ihr die Götter in allen Stücken sehr verehrt“ – so beginnt Paulus seine Ansprache an sie. Aber die Athener beten andere Götter an als denjenigen, den Paulus kennengelernt hat. Sie haben eine andere Vorstellung von Gott als Paulus. Sie denken sich ihre Götter als männliche und weibliche Mächte mit bestimmten Zuständigkeiten. Ein Gott ist zuständig für den Himmel, ein anderer für den Krieg, eine Göttin gibt es für die Fruchtbarkeit, eine andere fürs Glück. Und weil man ja nie wissen kann, ob man wirklich an alle Götter gedacht hat, und weil es sein könnte, dass ein Gott sich übergangen fühlt und sich dafür dann an den Menschen rächt, deshalb haben sie auch „dem unbekannten Gott“ einen Altar errichtet. Genau an dieser Stelle setzt  Paulus an und sagt: „Ich verkündige euch, was ihr unwissend verehrt.“

Offenbar geht es nicht darum einfach nur religiös zu sein. Religion kann auch versklaven. Manche Götter erwarten von den Menschen, dass sie ihnen als Sklaven dienen – bis heute ist das so, wenn wir an den Mammon den Gott des Geldes und des Kapitals denken, dem in den Großstädten auch heute noch die aufwändigsten Tempel gebaut werden.

Demgegenüber ist der Gott, den Paulus verkündet, unscheinbar. Er „wohnt nicht  in Tempeln“, „lässt sich nicht von Menschenhänden dienen“. Er lässt sich vielmehr wie ein schüchterner Liebhaber von den Menschen suchen, „ob sie ihn wohl fühlen und finden könnten“. Obwohl er „nicht ferne von einem jeden unter uns ist“, kann man oft von ihm nichts wahrnehmen. Obwohl wir „in ihm leben, weben und sind“, bekommen wir oft genug nichts von ihm mit. Man muss seine Spur aufnehmen, darf seine leisen Worte nicht überhören, sein Liebeswerben nicht übersehen. Manchmal verbirgt er sich oder er stellt sich spröde, als wolle er von einem gar nichts wissen. Aber das alles nur, weil er niemand zwingen will. Weil er als großer Liebender die ganze Zuwendung von uns will, frei und ungezwungen. Und wenn wir uns ihm wirklich hingeben, dann lodert seine Liebe in uns auf. 

Pfarrer Heiner Bludau