14.04.2022 Testo della Predica - Predigttext


Dove e quando?


Giovedì, 14 aprile 2022

ore 18:30

Chiesa San Francesco d'Assisi

Via San Francesco d'Assisi 11

Torino


Culto con Santa Cena

Giovedì Santo 

1 Corinzi 10, 16-17

Grafica - Graphik: Pfeffer
Grafica - Graphik: Pfeffer

Wo und Wann?


Donnerstag, 14. April 2022

18:30 Uhr

Kirche San Francesco d'Assisi

Via San Francesco d'Assisi 11

Torino 


Gottesdienst mit Abendmahl

Gründonnerstag 

1. Korinther 10, 16.17



Testo della Predica


Il calice della benedizione, che noi benediciamo, non è forse la comunione con il sangue di Cristo?

Il pane che noi rompiamo non è forse la comunione con il corpo di Cristo?

Siccome vi è un unico pane, noi, che siamo molti, siamo un corpo unico, perché partecipiamo tutti a quell'unico pane.

È sera, è già calato l’imbrunire. L’aria profuma di primavera.

All’interno della casa, nella stanza di sopra, le lampade ad olio diffondono una luce tremolante. Sul pavimento c’è un tavolo imbandito a festa con sopra una forma di pane schiacciato, una ciotola con del sedano, un mazzetto di erbe amare, un osso con della carne e altri ingredienti. A fianco c’è una lunga tavola bassa sulla quale ci sono quattro calici, del vino e una ciotola con dell’acqua salata. Intorno al tavolo, su tappeti e cuscini, siedono Gesù e i suoi dodici discepoli.

Sono in silenzio, non dicono una parola. Da fuori arriva alle loro orecchie il passo regolare di una guardia romana che si avvicina e poi si perde di nuovo in lontananza. Un uccello canta le sue lodi per i primi giorni caldi dell’anno.

Gesù pensa a com’era quando era bambino; quando sedeva al tavolo con i suoi fratelli, quando in famiglia si festeggiava la sera del Seder, il momento più importante della festa di Pesah. C’era sempre allegria. Suo padre Giuseppe raccontava delle storie di un tempo e i bambini correvano intorno al tavolo giocando a rincorrersi per acchiapparsi… ma oggi c’è un’atmosfera strana che aleggia su tutta la giornata. Il silenzio al tavolo del sèder è proprio indicato.

Gesù sente che gli occhi di tutti aspettano lui. Egli rivolge la testa leggermente verso Andrea e gli fa un cenno. Andrea sa, quello che c’è da fare: prende un calice e versa del vino. Dice la preghiera che conoscono tutti, la preghiera con la quale inizia la cena del sèder e con ciò la festa di Pesah:

“Benedetto Tu, o Signore, Dio nostro, Re del mondo, che ci desti con amore ricorrenze per la gioia e feste e momenti per la letizia; e questo giorno della festa delle mazzot, questo giorno di festività di santa adunanza, tempo della nostra libertà, santa convocazione in ricordo dell’uscita dall’Egitto. Benedetto Tu, o Signore. Amen”.

Senza dire niente bevono tutti dal primo calice di vino.

Di nuovo c’è una pausa. Di nuovo guardano tutto verso Gesù.

Con esitazione prende un pezzo di sedano e lo bagna nell’acqua salata. Poi pronuncia la seconda preghiera:

“Benedetto Tu, o Signore, Dio nostro, Re del mondo, Creatore dei frutti della terra”. Mangia un pezzo di sedano e ne dà anche agli altri.

Di nuovo una pausa. Gli sguardi dei discepoli adesso sono più preoccupati che interrogativi… non sta forse bene?

Con mani tremanti Gesù afferra il pane schiacciato e inizia a distribuirlo. “Questo è…” inizia a dire. La voce però si spezza.

Andrea avrebbe il testo pronto:

“Questo è il pane d’afflizione che i nostri padri mangiarono in terra d’Egitto: chiunque abbia fame venga e mangi; chiunque abbia bisogno venga e celebri Pesah. Quest’anno siamo qui, l’anno prossimo saremo in terra d’Israele; quest’anno siamo qui schiavi, l’anno prossimo saremo in terra di Israele, uomini liberi”.

Andrea riflette se deve sostituire il maestro dicendo le parole sul pane.

Proprio quando Andrea vuole iniziare con “Questo è il pane d’afflizione”, Gesù dice in modo breve e deciso: “Questo è il mio corpo che viene dato per voi. Fate questo in memoria di me”.

 

Cara comunità,

così o in maniera simile potrebbe essere stato poco meno di 2000 anni fa a Gerusalemme quando Gesù con i suoi discepoli ha celebrato per la prima volta la Santa Cena. Quando la sera della sua cattura ha trasformato in Santa Cena la cena della Pesah.

Non so come vi siete sentiti quando avete ascoltato il racconto con parole mie. Quando me lo sono immaginato ho pensato: strano quello che fa parte di questa cena di Pesah: non soltanto pane e vino, ma anche del sedano e un osso con della carne, dell’acqua salata ed erbe amare. E mi sono chiesto: perché proprio queste cose? Che cosa significano?

E nel momento in cui me lo sono chiesto, ho notato una cosa: se qualcuno mette tutte queste cose su un tavolo e poi le mangia e le beve con altri, si è ben lontani da un Seder. Parimenti se qualcuno beve del vino e ci mangia del pane assieme, si è ben lontani da una Santa Cena.

C’è bisogno anche di qualcos’altro: di parole che indicano che cosa si sta facendo. Parole che diano il loro significato alle cose.

Parlare adesso di tutti gli elementi della Pesah richiederebbe troppo tempo. Lo svolgimento di questa cena, la cosiddetta Pesah-Haggadah, riempie un libro intero. Vorrei però far notare una cosa:

il pane nel seder ha il significato di “pane d’afflizione…”, il pane che gli israeliti hanno mangiato quando erano schiavi in Egitto.

E in fin dei conti non solo il pane riceve un significato con queste parole, bensì anche ognuno di quelli che mangiano di questo pane. Chi mangia di questo pane si vede come schiavo in Egitto, come un non libero che non si può liberare da solo, che però spera e si aspetta la sua liberazione da parte di Dio.

Questa cena-seder tocca l’anima del popolo di Israele, il popolo di Dio. Chi mangia questo pane d’afflizione ne fa parte. Lui o lei è uno/una di loro. Ha parte in questa esperienza comune e collettiva dell’antefatto.

Questa è la cena nella quale si sono riuniti i discepoli e Gesù la vigilia della sua crocifissione.

Con una grande differenza però: Gesù in questa sera dà un significato nuovo ai quattro calici di vino e al pane.

Per il pane egli non dice più “Questo è il pane d’afflizione”. Dice invece: “Questo è il mio corpo che viene dato per voi. Fate questo in memoria di me”.

E per il vino dice: “Questo è il nuovo testamento nel mio sangue che viene sparso per voi, per il perdono dei peccati”.

Questo è il significato che noi anche oggi attribuiamo al pane e al vino nella nostra Santa Cena. Un significato nuovo.

Ed è evidente che con ciò non solo il pane e il vino hanno un nuovo significato, ma anche noi che ne mangiamo e beviamo interpretiamo noi stessi in modo nuovo. Questo ha qualcosa a che fare anche con la coscienza di sé di noi cristiani … tocca anche la nostra anima.

Chi ne mangia e ne beve appartiene a Gesù Cristo. Il padre della Chiesa Agostino una volta ha portato questo al punto: quando mangiamo un cibo normale, un cibo per il nostro corpo, lo accogliamo in noi (lo digeriamo) e lo trasformiamo in nostro corpo.

Nel caso del cibo spirituale della Santa Cena è il contrario: è il cibo a trasformare noi.

Il pane e il vino che noi mangiamo e beviamo come corpo e sangue di Gesù… loro ci digeriscono, digeriscono il nostro vecchio essere umano. Ci trasformano tutti in direzione di Gesù Cristo, in una grande comunione che è impregnata di Gesù Cristo.

Gesù stesso una volta disse: chi va all’altare si deve prima riconciliare con suo fratello.

Paolo lo sottolinea nel nostro testo esattamente al contrario: la Santa Cena ci dona comunione… con la Santa Cena può iniziare la riconciliazione:

“noi, che siamo molti, siamo un corpo unico, perché partecipiamo tutti a quell’unico pane”.

La Santa Cena dona comunione. Non ce lo dovremmo dimenticare. Normalmente per accogliere il corpo e il sangue di Cristo ci disponiamo in semicerchio intorno all’altare. Con questa forma l’unione dei partecipanti alla comunione diventa evidente. Dall’inizio della pandemia vi abbiamo dovuto rinunciare. Anche adesso però mangiamo e beviamo insieme. E anche se noi nel segno di pace che precede non ci diamo la mano, ci possiamo comunque guardare e recepire a vicenda.

La Santa Cena ci dona comunione. Ci unisce l’un l’altro, anche se magari non ci conosciamo bene a vicenda. La comunità cristiana è espressione di comunione. Può essere però che tra singole persone a causa di un commento scortese o un’incomprensione o per delle opinioni divergenti, ci sia una certa tensione. Questo non sarebbe inusuale.

Prendiamo questa cosa sul serio. E guardiamo continuamente il fatto che la Santa Cena ci dona comunione… al di là di qualsiasi litigio e qualsiasi diffidenza reciproca. Apparteniamo assieme all’unico corpo di Cristo. Anche se per motivi di sicurezza della salute dopo la Comunione non ci diamo la mano come facevamo prima, pensiamo comunque anche a questo.

Traduzione: Katia Cavallito

Grafica - Graphik: Pfeffer
Grafica - Graphik: Pfeffer

Predigttext


16 Der Kelch des Segens, den wir segnen, ist der nicht die Gemeinschaft des Blutes Christi?

Das Brot, das wir brechen, ist das nicht die Gemeinschaft des Leibes Christi?

17 Denn ein Brot ist’s: So sind wir viele ein Leib, weil wir alle an einem Brot teilhaben.

Es ist Abend, die Dämmerung ist bereits hereingebrochen. Die Luft duftet nach Frühling.

Drinnen im Haus, im Obergemach, verbreiten Öllampen ein flackerndes Licht. Auf dem Boden steht ein Tisch, der festlich gedeckt ist. Ein großes Fladenbrot liegt darauf, eine Schale mit Sellerie, ein Bündchen bittere Kräuter, ein Knochen mit Fleisch und noch einige andere Zutaten. Daneben eine lange niedrige Tafel, auf der stehen vier Kelche und Wein und eine Schüssel mit Salzwasser. Um die Tafel herum, auf Teppichen und Kissen sitzen Jesus und seine zwölf Jünger.

Sie sind still und sagen kein Wort. Von draußen dringt der Gleichschritt einer römischen Wache an ihre Ohren und verliert sich dann wieder in der Ferne. Ein Vogel singt sein Loblied auf die ersten warmen Tage im Jahr.

Jesus denkt daran, wie es war, als er ein Kind war. Als er mit seinen Geschwistern am Tisch saß, wenn der Sederabend, der Höhepunkt des Passahfestes, in der Familie gefeiert wurde. Da ging es immer fröhlich und ausgelassen zu. Sein Vater Joseph erzählte Geschichten von früher. Und die Kinder rannten nach dem Mahl um den Tisch herum und spielten Fangen... Aber heute liegt über dem ganzen Tag eine merkwürdige Stimmung. Das Schweigen am Sedertisch passt dazu.

Jesus spürt, dass aller Augen auf ihn warten. Er wendet seinen Kopf leicht zu Andreas und nickt ihm zu. Andreas weiß, was zu tun ist. Er nimmt einen Kelch und schenkt Wein ein. Er spricht das Gebet, das sie alle kennen – das Gebet, mit dem das Seder-Mahl und damit das Passahfest beginnt:

„Gepriesen seist Du, Gott, Herr der Welt. In Liebe gabst Du uns bestimmte Zeiten zur Freude, Feste und Feiertage. Du hast uns auch diesen Tag des Passah-Festes gegeben, der uns immer erinnern soll an die Zeit unserer Befreiung an unseren Auszug aus Ägypten. Wir danken Dir dafür. Amen.“

Wortlos trinken alle aus dem ersten Becher Wein.

Wieder entsteht eine Pause. Wieder sehen alle auf Jesus.

Zögernd nimmt er ein Stück Sellerie und taucht es ins Salzwasser. Dann spricht er das zweite Gebet:

„Gepriesen seist Du, ewiger Gott, Herr der Welt, dass Du die Früchte der Erde erschaffen hast.“ 

Er isst ein Stück Sellerie und gibt auch den anderen davon.

Wieder eine Pause. Die Blicke der Jünger sind nun eher besorgt und fragend – geht es ihm nicht gut?

Mit zitternden Händen greift Jesus nach dem Fladenbrot und beginnt, es zu zerteilen. „Das ist...“ beginnt er zu sagen. Aber seine Stimme stockt. 

Andreas hätte den Text parat:

„Das ist das Brot des Elends, das unsere Vorväter im Lande Ägypten gegessen haben. Jeder, der hungrig ist, komme und esse! Jeder, der in Not ist, komme und feiere mit uns das Passah-Fest! Dieses Jahr noch hier; im nächsten Jahr im Lande Israel. Dieses Jahr noch als Sklaven; kommendes Jahr als freie Leute.“ 

Andreas überlegt, ob er für den Meister einspringen soll und das Wort über dem Brot sprechen.

Gerade, als Andreas ansetzen will „Das ist das Brot das Elends“ – sagt Jesus kurz und entschlossen: „Das ist – mein Leib, der für euch gegeben wird, solches tut zu meinem Gedächtnis“. 

 

Liebe Gemeinde,

so oder so ähnlich könnte es gewesen sein, heute vor knapp 2000 Jahren in Jerusalem, als Jesus mit seinen Jüngern das erste Mal Abendmahl feierte. Als er am Abend seiner Gefangennahme aus dem Passah-Mahl das Abendmahl machte.

Ich weiß nicht, wie es Euch ging, als Ihr meine Nacherzählung gehört habt. Als ich mir das so vorgestellt habe, dachte ich: seltsam, was zu diesem Passah-Mahl alles dazu gehört: nicht nur Brot und Wein, sondern auch noch Sellerie und ein Knochen mit Fleisch, Salzwasser und bittere Kräuter. Und ich habe mich gefragt: Warum denn gerade diese Dinge? Was hat das zu bedeuten?

Und in dem Moment, wo ich mich das gefragt habe, ist mir etwas aufgefallen: Wenn irgendjemand all diese Dinge auf einen Tisch stellt und das dann mit anderen zusammen isst und trinkt, dann ist das noch lange kein Seder. Oder auch, wenn jemand Wein trinkt, und Brot dazu isst, dann ist das noch lange kein Abendmahl.

Da gehört noch was dazu: Worte, die deuten, was da getan wird. Worte, die den Dingen ihre Bedeutung geben.

Über alle Elemente des Passah-Mahles zu sprechen, würde jetzt zu lange dauern. Der Ablauf dieses Mahles, die sogenannte Passah-Haggadah, füllt ein ganzes Buch. Aber auf eine Sache möchte ich gerne hinweisen: Das Brot hat beim Seder die Bedeutung, dass es „...das Brot des Elends...“ ist – das Brot, das die Israeliten gegessen haben, als sie Sklaven in Ägypten waren.

Und genau genommen bekommt durch diese Worte nicht allein das Brot eine Bedeutung, sondern auch jeder, der von dem Brot isst. Wer von dem Brot isst, versteht sich damit als Sklave in Ägypten – als ein Unfreier, der sich nicht selbst befreien kann. Der aber von Gott seine Befreiung erhofft und erwartet.

Dieses Seder-Mahl rührt sozusagen an die Seele des Volkes Israels, des Gottesvolkes. Wer dieses Brot des Elends isst, der gehört dazu. Der bzw. die ist eine von ihnen. Hat Anteil an dieser gemeinsamen, kollektiven Erfahrung aus der Vorgeschichte.

Das ist das Mahl, zu dem sich die Jünger und Jesus am Vorabend seiner Kreuzigung versammelt haben. Allerdings mit einem großen Unterschied: Jesus gibt an diesem Abend einem der vier Weinkelche und dem Brot eine neue Bedeutung.

Zu dem Brot sagt er nicht mehr: „Das ist das Brot des Elends.“ Sondern: „Das ist mein Leib der für euch gegeben wird, solches tut zu meinem Gedächtnis“

Und zu dem Wein sagt er: „Das ist mein Blut des Bundes, das für viele vergossen wird zur Vergebung der Sünden“

Das ist die Bedeutung, die wir auch heute dem Brot und dem Wein in unserem Abendmahl zusprechen. Eine neue Bedeutung. 

Und es liegt auf der Hand, dass damit nicht allein das Brot und der Wein eine neue Bedeutung haben. Sondern dass auch wir, die wir davon essen und trinken uns selbst neu deuten. Das hat auch etwas mit unserem christlichen Selbstverständnis zu tun – das rührt auch an unsere Seele.

Wer davon isst und trinkt, gehört zu Jesus Christus. Der Kirchenvater Augustinus hat das einmal so auf den Punkt gebracht: Wenn wir eine normale, eine Speise für den Leib essen, dann nehmen wir sie in uns auf , verdauen sie, und verwandeln sie damit in unseren Körper. Bei der geistlichen Speise des Abendmahles ist das umgekehrt: die Speise verwandelt uns. Brot und Wein, die wir als Leib und Blut Jesu essen und trinken – die verdauen uns, unseren alten Menschen. Sie verwandeln uns alle in Richtung auf Jesus Christus, in eine große Gemeinschaft, die von Jesus Christus geprägt ist.

Jesus selbst hatte einmal gesagt: „Wer zum Altar geht, soll sich vorher mit seinem Bruder versöhnen.“ Paulus betont es in unserem Predigttext gerade anders herum: Das Abendmahl schenkt uns Gemeinschaft – mit dem Abendmahl kann Versöhnung beginnen: „So sind wir viele ein Leib, weil wir alle an einem Brot teilhaben.“

Das Abendmahl schenkt Gemeinschaft. Das sollten wir nicht vergessen. Normalerweise stellen wir uns zum Empfang von Leib und Blut Christi im Halbkreis um den Altar auf. In dieser Form wird die Gemeinschaft bei der Kommunion offensichtlich. Seit Beginn der Pandemie haben wir darauf verzichtet. Aber auch jetzt essen und trinken wir gemeinsam. Und auch wenn wir uns beim Friedensgruß zuvor nicht die Hand reichen, so können wir uns doch gegenseitig ansehen und wahrnehmen.

Das Abendmahl schenkt uns Gemeinschaft. Es verbindet uns miteinander, auch wenn wir uns gegenseitig vielleicht gar nicht gut kennen. Die christliche Gemeinde ist Ausdruck von Gemeinschaft. Aber es kann dennoch sein, dass zwischen einzelnen Personen aufgrund einer unfreundlichen Bemerkung oder einem Missverständnis oder aufgrund unterschiedlicher Meinungen, eine Spannung besteht. Das wäre nicht ungewöhnlich. 

Lasst uns das ernst nehmen. Und lasst uns immer wieder darauf schauen, dass das Abendmahl uns Gemeinschaft schenkt – über allen Streit und alles gegenseitige Misstrauen hinweg. Wir gehören zusammen zu dem einen Leib Christi. Auch wenn wir uns aus Gründen gesundheitlicher Sicherheit nach der Kommunion nicht wie früher die Hände reichen, so lasst uns doch auch daran denken.

Pfarrer Heiner Bludau