27.02.2022 Testo della Predica - Predigttext


Dove e quando?


Domenica, 27 febbraio 2022

ore 11

Chiesa San Francesco d'Assisi

Via San Francesco d'Assisi 11

Torino


Culto con Santa Cena

Domenica prima della Quaresima, Estomihi

Marco 8,31-38

Grafica - Graphik: Müller
Grafica - Graphik: Müller

Wo und Wann?


Sonntag, 27. Februar 2022

11 Uhr

Kirche San Francesco d'Assisi

Via San Francesco d'Assisi 11

Torino 


Gottesdienst mit Abendmahl

Sonntag vor der Passionszeit, Estomihi

Markus 8,31-38



Testo della Predica


Gesù cominciò a insegnare i discepoli che era necessario che il Figlio dell'uomo soffrisse molte cose, fosse respinto dagli anziani, dai capi dei sacerdoti, dagli scribi, e fosse ucciso e dopo tre giorni risuscitasse. Diceva queste cose apertamente. Pietro lo prese da parte e cominciò a rimproverarlo. Ma Gesù si voltò e, guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro dicendo: «Vattene via da me, Satana! Tu non hai il senso delle cose di Dio, ma delle cose degli uomini».

Chiamata a sé la folla con i suoi discepoli, disse loro: «Se uno vuol venire dietro a me, rinunci a se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la sua vita, la perderà; ma chi perderà la sua vita per amor mio e del vangelo, la salverà. E che giova all'uomo se guadagna tutto il mondo e perde l'anima sua? Infatti, che darebbe l'uomo in cambio della sua anima? Perché se uno si sarà vergognato di me e delle mie parole in questa generazione adultera e peccatrice, anche il Figlio dell'uomo si vergognerà di lui quando verrà nella gloria del Padre suo con i santi angeli».

Cara comunità!

Era veramente la volontà di Dio, che Gesù morisse una morte tremenda sulla croce?

Oggi alcuni teologi sono di altro avviso. Circa 20 anni fa il professore di teologia Klaus-Peter Jörns ha pubblicato un libro in Germania nel quale egli si dichiarava contrario all’idea che il sacrificio di Gesù sulla croce sia stato necessario per riconciliare gli uomini con Dio. Il concetto di sacrificio ha origine nell’Antico Testamento, dice Jörns, e non ha niente a che fare con quello che ha insegnato Gesù. Gesù ha annunciato l’amore incondizionato di Dio. Interpretare la sua morte sulla croce come sacrificio necessario contraddice il messaggio di Gesù e fa del Dio dell’amore un Dio della ritorsione e della vendetta.

Questa tesi di Klaus-Peter Jörns ha riscontrato sia consenso che disapprovazione. Ritengo positivo e utile che Jörns abbia richiamato l’attenzione sul grande rischio di malintesi per quanto riguarda la croce di Gesù. Se la fede cristiana rimane ferma nell’osservare la violenza, la sofferenza, il peccato, il dolore e la morte, allora essa perde la sua forza liberatrice e può essere facilmente abusata come strumento di oppressione. D’altro canto, però, temo che Jörns butti via il bambino con l’acqua sporca. Di sicuro Dio non ha bisogno del sacrificio, ma noi esseri umani non ci cercheremmo di nuovo altre vittime se non impariamo finalmente a riconoscere il sacrificio di Gesù come l’ultimo e definitivo? Se in Europa le frontiere per i profughi vengono rese sempre più impenetrabili… in questo modo non vengono rese vittime nuove persone? Non potrebbe essere invece che alla fede cristiana appartenga anche la disponibilità di accettare delle sofferenze per se stessi invece di imporle agli altri?

Il vangelo di oggi tratta proprio queste domande. “Il cammino verso la croce” è il tema di oggi, la domenica prima della Quaresima. Forse anche questo si presta a equivoci. Meglio sarebbe forse dire: “Il cammino verso la vita”. Solo che potrebbe darsi che questo cammino porti a passare davanti alla croce o addirittura attraverso di essa.

Per capire che cosa voglia dire la sofferenza di Gesù e anche la sofferenza per noi nella sua sequela, non si può dimenticare l’orizzonte della promessa. In fin dei conti si tratta della vita, non della morte. Gesù parla della necessità della sua morte nell’orizzonte della risurrezione. Al popolo e ai suoi discepoli insegna un paradosso: “Chi vorrà salvare la sua vita, la perderà; ma chi perderà la sua vita per amor mio e del vangelo, la salverà”. Dietro si cela la domanda: come trovo la via verso la vita giusta? Come trovo la via verso una vita che sfrutta davvero le possibilità della mia esistenza in questo mondo? Una vita che non si accontenta del mangiare e del bere, di un certo benessere e un po’ di carriera, una vita invece che risponde in maniera adeguata alla meraviglia dell’esistenza. Una vita sensata… come la trovo?

Come risposta a questa domanda Gesù dice: se vuoi trattenere ciò che tieni per le mani della tua vita e delle sue possibilità, perderai tutto. Suona piuttosto pessimista, in realtà è soltanto realistico. È fuori dubbio infatti che alla fine della vita ci sia la morte. Naturalmente ci si può consolare con l’idea che se ho vissuto bene, se ho fatto qualcosa della mia vita, allora posso guardare indietro con soddisfazione ai figli e ai nipoti, forse a degli averi, alla realizzazione di valori che per me erano importanti. Ma sarà davvero così? Non è forse un’illusione? Perché dovrebbe essere diverso alla fine della vita che nel mezzo della vita? E lì – nel mezzo della vita – è sempre tutto mescolato, cioè oltre al senso di soddisfazione c’è sempre anche il senso di insoddisfazione, di insufficienza. Nel mezzo la vita continua, il senso di insufficienza può essere il motore per sforzarsi ulteriormente, ma alla fine non continua; lì rimane soltanto l’abbandonare la vita.

Al concetto dell’autorealizzazione Gesù ne contrappone un altro: “chi perderà la sua vita per amor mio e del vangelo, la salverà”. Non lo vedo come una consolazione dell’aldilà. Gesù non predica la rinuncia in questa vita e il premio in un’altra; egli parla piuttosto di un’esperienza, che si può fare già nel mezzo di questa vita: l’esperienza paradossale cioè che si dà qualcosa e facendolo si riceve qualcosa in dono; che un concetto di vita al quale ci si aggrappa con timore venga abbandonato e proprio così facendo si riceve nuova sicurezza; che si abbandonino delle pretese e in cambio si guadagnino nuove possibilità. Non è un automatismo. Non si può dire: se perdi una cosa, ne vinci in tutti i casi un’altra. Abbandonarsi, dare via è e rimane un rischio. Chi, però, corre questo rischio diventa aperto per l’esperienza di cui parla Gesù. E forse fa già nel mezzo della sua vita esperienze felici in questo senso. Lo sguardo sulla propria vita allora non è un misto di soddisfazione e insoddisfazione, bensì si basa sul senso del ricevere un dono. Non la realizzazione delle proprie possibilità è il punto di riferimento, bensì l’essere accettati.

E così si amplia l’orizzonte di colui che segue Gesù. Conservare la vita significa riceverla in dono. Senso e soddisfazione crescono dalla relazione con Gesù Cristo. Al più tardi a questo punto però Gesù non è più soltanto un maestro che insegna saggezza. Gesù stesso ha lasciato andare tutto ciò che aveva e ha guadagnato nuovamente la vita nella risurrezione. Egli in essa è esempio e ancora di più: egli è colui che ha percorso per primo un cammino permettendo ad altri di seguirlo perché ha spianato la via.

Gesù “cominciò a insegnare loro che era necessario che il Figlio dell’uomo soffrisse molte cose, fosse respinto dagli anziani, dai capi dei sacerdoti, dagli scribi, e fosse ucciso e dopo tre giorni risuscitasse”. Con queste parole Gesù annuncia la sua sofferenza e la sua morte nel Vangelo di Marco. Egli “deve soffrire molte cose”, dice, e descrive con queste una necessità. Soltanto da questa sofferenza e da questa morte si può capire appieno chi sia Gesù realmente. Nel Vangelo di Marco questo lo si esprime con il cosiddetto segreto messianico: Gesù si mostra sì agli uomini come Messia – per esempio con i suoi miracoli – ma proibisce loro continuamente di raccontarlo ad altri. È troppo prossimo il malinteso che Gesù sia una specie di eroe, che è venuto nel mondo per cambiarlo con atti di potere. Soltanto sulla croce nella sua totale impotenza esteriore diventa chiaro che egli non cambia il mondo esteriormente appunto, bensì che la sua forza è tutt’altra: una forza che si posiziona all’interno nei cuori di noi esseri umani.

Non è facile da capire e i vangeli sono concordi nel riportare che nemmeno i discepoli a quel tempo lo avevano capito. Pietro, il primo di loro, immediatamente prima del brano di oggi del Vangelo di Marco riconosce Gesù come il Messia. Si augura però un Messia forte esteriormente, uno verso il quale si possano alzare gli occhi, uno che metta a posto il mondo. Quando Gesù parla della sua sofferenza e della sua morte, Pietro non vuole ascoltare queste cose: “Pietro lo prese da parte e cominciò a rimproverarlo” è scritto nel vangelo di oggi.

Non è consolatorio? L’obiezione contro la croce di Cristo non esiste soltanto da vent’anni. È già contenuta nel vangelo stesso, formulata da colui che è stato in prima linea per la nascita della Chiesa. Questa contraddizione è apparentemente umana nel più profondo. Quanto saremmo esseri crudeli, in effetti, se accettassimo l’uomo sulla croce senza obiezioni.

Gesù però vede la cosa diversamente: “rimproverò Pietro dicendo: «Vattene via da me, Satana! Tu non hai il senso delle cose di Dio, ma delle cose degli uomini»”. Gesù riconosce nella sua sofferenza e nella sua morte la volontà di Dio ed è disposto a percorrere questo cammino. E di sicuro non perché egli ritenga Dio un crudele Dio vendicativo, ma perché soltanto così alla violenza “degli anziani, dei capi dei sacerdoti, degli scribi” e di tutti gli altri potenti si può contrapporre qualcosa di fondamentalmente nuovo. La violenza qui non viene né ignorata né le si risponde con altra violenza; viene messa alla gogna e smascherata. Gesù non la supera contrapponendole a sua volta della violenza, bensì mostrando un nuovo cammino lasciandola accadere su se stesso. Di fronte alla violenza e alla sofferenza e alla morte Dio mostra il suo amore appunto non con parole gentili, ma lasciando che il suo figlio prenda la sofferenza su di sé.

A volte corriamo forse il pericolo di voler prendere delle scorciatoie sul cammino verso la vita; preferendo piuttosto evitare i tratti bui di questa via. La via attraverso la croce è tutt’altro che allettante. Il Crocifisso non è una bella immagine, altre immagini di Dio sono più piacevoli. Alla fine però quello che conta è se siamo arrivati nella vita. Chiudere gli occhi davanti alla sofferenza non aiuta a farlo. Gesù, però, ha mostrato che esiste un cammino percorribile, passando dalla sofferenza e dalla morte, che porta alla vita.

Traduzione dal tedesco di Katia Cavallito

Foto: Lotz
Foto: Lotz

Predigttext


Jesus fing an, die Jünger zu lehren: Der Menschensohn muss viel leiden und verworfen werden von den Ältesten und den Hohenpriestern und den Schriftgelehrten und getötet werden und nach drei Tagen auferstehen. Und er redete das Wort frei und offen. Und Petrus nahm ihn beiseite und fing an, ihm zu wehren. Er aber wandte sich um, sah seine Jünger an und bedrohte Petrus und sprach: Geh hinter mich, du Satan! Denn du meinst nicht, was göttlich, sondern was menschlich ist.

Und er rief zu sich das Volk samt seinen Jüngern und sprach zu ihnen: Will mir jemand nachfolgen, der verleugne sich selbst und nehme sein Kreuz auf sich und folge mir nach.  Denn wer sein Leben behalten will, der wird’s verlieren; und wer sein Leben verliert um meinetwillen und um des Evangeliums willen, der wird’s behalten. Denn was hilft es dem Menschen, die ganze Welt zu gewinnen und Schaden zu nehmen an seiner Seele? Denn was kann der Mensch geben, womit er seine Seele auslöse?

Wer sich aber meiner und meiner Worte schämt unter diesem ehebrecherischen und sündigen Geschlecht, dessen wird sich auch der Menschensohn schämen, wenn er kommen wird in der Herrlichkeit seines Vaters mit den heiligen Engeln.

Liebe Gemeinde!

War es wirklich der Wille Gottes, dass Jesus den grauenvollen Tod am Kreuz sterben musste? 

Von manchen Theologen wird das heute bestritten. Vor knapp 20 Jahren hat der Theologieprofessor Klaus-Peter Jörns in Deutschland ein Buch veröffentlicht, in dem er sich gegen die Vorstellung wandte, das Opfer von Jesus am Kreuz sei notwendig gewesen, um die Menschen mit Gott zu versöhnen. Der Begriff des Opfers stamme aus dem Alten Testament, sagt Jörns, und habe nichts mit dem zu tun, was Jesus gelehrt habe. Jesus habe die bedingungslose Liebe Gottes verkündet. Seinen Tod am Kreuz als notwendiges Opfer zu interpretieren, widerspreche der Botschaft Jesu und mache aus dem Gott der Liebe einen Gott der Vergeltung und der Rache.

Diese These von Klaus-Peter Jörns ist sowohl auf Zustimmung als auch auf Ablehnung gestoßen. Ich halte es für gut und für nützlich, dass Jörns auf die große Gefahr von Missverständnissen in Hinsicht auf das Kreuz Jesu hingewiesen hat. Wenn der christliche Glaube bei der Betrachtung von Gewalt, Leid, Schuld, Schmerz und Tod stehen bleibt, dann verliert er seine befreiende Kraft und kann leicht als Instrument der Unterdrückung missbraucht werden. Andererseits fürchte ich, dass Jörns das Kind mit dem Bade ausschüttet. Sicher braucht Gott das Opfer nicht. Aber werden wir Menschen uns nicht wieder neue Opfer suchen, wenn wir nicht endlich lernen, dass Opfer Jesu als das letzte und endgültige anzuerkennen? Wenn in Europa die Grenzen für Flüchtlinge immer undurchlässiger gemacht werden – werden dadurch nicht wieder neu Menschen zu Opfern gemacht? Könnte es demgegenüber nicht sein, dass zum christlichen Glauben eben auch die Bereitschaft gehört, Leiden für sich selbst zu akzeptieren und es nicht nur anderen zuzumuten?

Das heutige Evangelium handelt genau von solchen Fragen. „Der Weg zum Kreuz“ ist das Thema des heutigen Sonntags vor der Passionszeit. Vielleicht ist auch das missverständlich. Besser wäre es vielleicht zu sagen: „Der Weg zum Leben“. Nur dass es eben sein könnte, dass dieser Weg am Kreuz vorbei führt, oder sogar mitten hindurch.

Um zu verstehen, was es mit dem Leiden Jesu und auch mit dem Leiden von uns in seiner Nachfolge auf sich hat, darf man den Horizont der Verheißung nicht vergessen. Letzten Endes geht es ums Leben, nicht um den Tod. Jesus redet von der Notwendigkeit seines Todes im Horizont der Auferstehung. Das Volk und seine Jünger lehrt er ein Paradox: „Wer sein Leben erhalten will, der wird’s verlieren; und wer sein Leben verliert um meinetwillen und um des Evangeliums willen, der wird’s erhalten.“ Dahinter steht die Frage: Wie finde ich zum richtigen Leben? Wie finde ich zu einem Leben, das die Möglichkeiten meiner Existenz in dieser Welt wirklich ausschöpft? Ein Leben, das sich nicht zufrieden gibt mit Essen und Trinken, mit einem gewissen Wohlstand und ein bisschen Karriere, ein Leben vielmehr, das auf das Wunder der Existenz adäquat antwortet. Ein sinnvolles Leben – wie finde ich es? 

Als Antwort auf diese Frage sagt Jesus: Wenn Du das, was Du von Deinem Leben und seinen Möglichkeiten in den Händen hältst, festhalten willst, wirst Du alles verlieren. Das klingt sehr pessimistisch, ist aber im Grunde nur realistisch. Denn es steht außer Zweifel, dass am Ende des Lebens der Tod steht. Natürlich kann man sich trösten mit der Vorstellung: Wenn ich gut gelebt habe, wenn ich aus meinem Leben etwas gemacht habe, dann kann ich zufrieden zurück blicken auf Kinder und Enkel, auf einen kleinen Besitz vielleicht, auf die Verwirklichung von Werten, die mir wichtig waren. Aber wird das wirklich so sein? Ist das nicht vielleicht eine Illusion? Warum sollte es am Ende des Lebens anders sein als in der Mitte des Lebens? Und da – in der Mitte des Lebens – ist immer alles vermischt, das heißt neben dem Gefühl der Zufriedenheit gibt es immer auch das Gefühl der Unzufriedenheit, des Ungenügens. In der Mitte geht das Leben dann weiter, da kann das Gefühl des Ungenügens Motor dafür sein, sich weiter anzustrengen. Aber am Ende geht es nicht mehr weiter, da bleibt nur, das Leben abzugeben. 

Dem Konzept der Selbstverwirklichung stellt Jesus ein anderes gegenüber: „Wer sein Leben verliert um meinetwillen und um des Evangeliums willen, der wird’s erhalten.“ Ich verstehe das nicht als Vertröstung auf ein Jenseits. Jesus predigt nicht den Verzicht in diesem Leben und die Belohnung in einem anderen. Er spricht vielmehr von einer Erfahrung, die man schon mitten in diesem Leben machen kann: Die paradoxe Erfahrung nämlich, dass man etwas hergibt und dabei selbst beschenkt wird; dass man ein Lebenskonzept, an das man sich angstvoll klammert, loslässt und gerade dadurch neue Sicherheit gewinnt; dass man Ansprüche aufgibt und dafür neue Möglichkeiten gewinnt. Das ist kein Automatismus. Man kann nicht sagen: Wenn Du das eine verlierst, gewinnst Du auf alle Fälle etwas anderes. Loszulassen, wegzugeben, ist und bleibt ein Risiko. Aber wer dieses Risiko eingeht, wird offen für die Erfahrung, von der Jesus spricht. Und vielleicht macht er schon mitten in seinem Leben damit beglückende Erfahrungen. Der Blick auf das eigene Leben ist dann nicht eine Mischung von Zufriedenheit und Unzufriedenheit, sondern ruht auf dem Gefühl des Beschenktseins. Nicht die Verwirklichung der eigenen Möglichkeiten ist der Bezugspunkt, sondern das Angenommensein.

Und so weitet sich der Horizont dessen, der Jesus nachfolgt. Das Leben zu erhalten bedeutet, es geschenkt zu bekommen. Sinn und Zufriedenheit erwachsen aus der Beziehung mit Jesus Christus. Spätestens an diesem Punkt aber ist Jesus nicht mehr nur ein Lehrer, der Lebensweisheit lehrt. Jesus selbst hat vielmehr alles losgelassen, was er hatte und hat das Leben neu gewonnen in der Auferstehung. Er ist darin Vorbild und noch mehr: er ist derjenige, der einen neuen Weg als erster gegangen ist und damit anderen ermöglicht, hinterher zu gehen, indem er den Weg gebahnt hat.

„Jesus fing an, seine Jünger zu lehren: ‚Der Menschensohn muss viel leiden und verworfen werden von den Ältesten und Hohenpriestern und Schriftgelehrten und getötet werden und nach drei Tagen auferstehen.‘“ Mit diesen Worten kündigt Jesus im Markusevangelium sein Leiden und seinen Tod an. Er „muss viel leiden“, sagt er, und beschreibt damit eine Notwendigkeit. Nur von diesem Leiden und Sterben her lässt sich ganz verstehen, wer Jesus eigentlich ist. Im Markusevangelium wird dies durch das sogenannte „Messiasgeheimnis“ ausgedrückt: Jesus zeigt sich zwar - zum Beispiel durch seine Wundertaten - den Menschen als Messias, aber er verbietet ihnen immer wieder, anderen davon zu erzählen. Zu nahe liegt das Missverständnis, Jesus als der Messias sei eine Art Held, der in die Welt gekommen sei um sie mit Machttaten zu verändern. Erst am Kreuz in seiner völligen äußeren Ohnmacht wird deutlich, dass er die Welt eben nicht äußerlich verändert, sondern dass seine Kraft eine ganz andere ist: eine, die im Inneren an den Herzen von uns Menschen ansetzt.

Das ist nicht leicht zu verstehen und die Evangelien berichten übereinstimmend davon, dass auch die Jünger damals es nicht verstanden haben. Petrus, der erste unter ihnen, bekennt unmittelbar vor dem heutigen Abschnitt aus dem Markusevangelium Jesus als den Messias. Aber er wünscht sich einen äußerlich starken Messias, einen, zu dem man aufsehen kann, einen der die Welt in Ordnung bringt. Als Jesus von seinem Leiden und Tod spricht, will Petrus das nicht hören. Er „nahm ihn beiseite und fing an, ihm zu wehren“ heißt es im heutigen Evangelium.

Ist das nicht tröstlich? Den Widerspruch gegen das Kreuz Christi gibt es nicht erst seit 20 Jahren. Er ist vielmehr im Evangelium selbst enthalten, formuliert von dem, der bei der Entstehung der Kirche in erster Reihe gestanden hat. Dieser Widerspruch ist offenbar zutiefst menschlich. Tatsächlich: Was wären wir für grausame Menschen, wenn wir den Mann am Kreuz einfach so hinnehmen würden. 

Doch Jesus sieht es anders: Er „bedrohte Petrus und sprach: ‚Geh weg von mir, Satan! Denn du meinst nicht was göttlich, sondern was menschlich ist.‘“ Jesus erkennt in seinem Leiden und Sterben den Willen Gottes und ist deshalb bereit, diesen Weg zu gehen. Und zwar sicher nicht, weil er Gott für einen blutrünstigen Rachegott hält. Sondern weil nur so der Gewalt der „Ältesten und Hohenpriester und Schriftgelehrten“ und aller anderen Mächtigen etwas grundsätzlich Neues und Anderes entgegengesetzt werden kann. Gewalt wird hier weder ignoriert noch mit Gegengewalt beantwortet. Sie wird an den Pranger gestellt und entlarvt. Jesus überwindet sie nicht dadurch, dass er ihr seinerseits Gewalt entgegensetzt sondern er zeigt einen neuen Weg, indem er sie an sich selbst geschehen lässt. Angesichts von Gewalt und  Leid und Tod erweist Gott seine Liebe eben nicht durch freundliche Worte, sondern indem er seinen Sohn das Leid auf sich nehmen lässt. 

Manchmal sind wir vielleicht in der Gefahr, Abkürzungen auf dem Weg zum Leben nehmen zu wollen, die dunklen Abschnitte dieses Weges lieber vermeiden wollen. Der Weg durchs Kreuz hindurch ist alles andere als reizvoll. Der Gekreuzigte ist kein schönes Bild, andere Bilder von Gott sind angenehmer. Doch am Ende zählt, ob wir ankommen im Leben. Die Augen vor dem Leid zu verschließen, hilft dabei nicht. Jesus aber hat gezeigt, dass es einen gangbaren Weg gibt, durch Leiden und Tod hindurch ins Leben.

Pfarrer Heiner Bludau