21.11.2021 Testo della Predica - Predigttext


Dove e quando?


Domenica, 21 novembre 2021

ore 11

Chiesa San Francesco d'Assisi

Via San Francesco d'Assisi 11

Torino


Ultima Domenica dell’anno liturgico - Commemorazione dei defunti con Santa Cena

Giovanni 5,24-29

Foto: Lotz
Foto: Lotz

Wo und Wann?


Sonntag, 21. November 2021

11 Uhr

Kirche San Francesco d'Assisi

Via San Francesco d'Assisi 11

Torino 


Letzter Sonntag des Kirchenjahres - Totensonntag mit Abendmahl

Johannes 5,24-29



Testo della Predica


Gesù disse: In verità, in verità vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha vita eterna; e non viene in giudizio, ma è passato dalla morte alla vita. In verità, in verità vi dico: l'ora viene, anzi è già venuta, che i morti udranno la voce del Figlio di Dio; e quelli che l'avranno udita, vivranno. Perché come il Padre ha vita in se stesso, così ha dato anche al Figlio di avere vita in se stesso; e gli ha dato autorità di giudicare, perché è il Figlio dell'uomo. Non vi meravigliate di questo; perché l'ora viene in cui tutti quelli che sono nelle tombe udranno la sua voce e ne verranno fuori; quelli che hanno operato bene, in risurrezione di vita; quelli che hanno operato male, in risurrezione di giudizio.

Cara comunità!

Nell’ultima domenica del calendario liturgico pensiamo a coloro con i quali abbiamo percorso parte del nostro cammino di vita, ma che nel frattempo sono morti. Possono essere il padre o la madre, il coniuge, dei fratelli o sorelle o altri parenti; degli amici, dei colleghi di lavoro o persone che abbiamo conosciuto in altri contesti.

Pensare a queste persone ci può far provare una grande riconoscenza, riconoscenza per tutto ciò che ha arricchito la mia vita grazie a questa persona. Forse però vengono anche in mente dei punti difficili nella relazione con lei; e tutte e due le cose possono causare dolore, perché nessuna delle due è più possibile: né posso esprimere il mio grazie verso questa persona né posso chiarire con lei ciò che ha pesato sulla nostra relazione. Per non parlare poi del fatto che forse anche l’addio è stato doloroso e che il ricordo di questo non lo è di meno.

Che cosa ci può dare conforto in una tale situazione? Di certo aiuta soprattutto avere qualcuno con il quale/con la quale parlare del mio dolore. Il conforto umano è la cosa per cui il nostro cuore si apre più facilmente se è incline all’amore e alla sensibilità, ma ci sono anche dei limiti al conforto umano; alcuni abissi interiori non possono praticamente essere pronunciati e a volte neanche una persona di buona volontà è in grado di capire davvero il dolore del suo prossimo e di reagire in modo adeguato.

La fede ci può aiutare? Come cristiani crediamo nella “resurrezione dei morti e nella vita eterna”, lo abbiamo appena professato nel Credo.

Sì, certo, questo è il punto centrale del credo cristiano. In realtà sulla base di questa fede la morte non ci dovrebbe poter toccare affatto, né la morte dei nostri cari né la nostra propria morte, ma non è sempre facile applicare una tale frase di fede alla propria situazione.

Infatti che cosa significa “vita eterna”? Ad ogni modo non è che la morte sia solo una specie di sonno per il quale ci si corica e dal quale poi dopo un po’ di tempo ci si alza di nuovo e la vita continua, e questo senza limite. Contro idee del genere si è già pronunciato l’Apostolo Paolo, come abbiamo sentito nella lettura dell’Epistola. “Insensato”, egli scrive, “quello che tu semini non è vivificato, se prima non muore; e quanto a ciò che tu semini, non semini il corpo che deve nascere, ma un granello nudo” (1 Cor. 15,36-37). Qui la morte non viene paragonata al sonno, bensì al processo della semina e della crescita. La nostra vita sarebbe come un seme dal quale nella resurrezione nasce qualcosa di assolutamente nuovo, come in natura un fiore, un cespuglio o un albero.

La vita eterna che viene annunciata nel Nuovo Testamento non è semplicemente la continuazione della vita nella quale siamo nati qui. È un qualcosa di molto più complesso, cosa ancora più chiara nel brano che abbiamo sentito come Vangelo. A un primo ascolto forse è sfuggito, ma osservando più da vicino diventa chiaro che qui si parla di vita eterna in due modi diversi. Alla fine del brano Gesù dice: “l’ora viene in cui tutti quelli che sono nelle tombe udranno la voce del Figlio dell’uomo e ne verranno fuori; quelli che hanno operato bene, in risurrezione di vita; quelli che hanno operato male, in risurrezione di giudizio”. Questa è una delle affermazioni nel Nuovo Testamento che ha caratterizzato l’idea tradizionale di noi cristiani su che cosa succede dopo la morte. Si lascia associare abbastanza bene con quello che abbiamo sentito dire da Paolo, anche se qui si parla in aggiunta di giudizio.

Al principio del brano Gesù dice però un’altra cosa: “In verità, in verità vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha vita eterna; e non viene in giudizio, ma è passato dalla morte alla vita. In verità, in verità vi dico: l’ora viene, anzi è già venuta, che i morti udranno la voce del Figlio di Dio; e quelli che l’avranno udita, vivranno”.

 

La prima parte sembra molto simile a ciò che abbiamo letto prima; poi però si dice espressamente che “l’ora è già venuta” nella quale i morti udranno la voce di Gesù. Che cosa significa?

Si potrebbe cercare di interpretare la cosa così che con la morte finisce il tempo e che di conseguenza ciò che in questa vita ci sembra il futuro al di là della morte può accadere parallelamente alla nostra esperienza terrena.

Il contesto però suggerisce di interpretare la cosa diversamente. Infatti nella Bibbia la parola “morte” non viene utilizzata soltanto per lo stato che subentra dopo il morire. Si dice per esempio del figliol prodigo che sul suo cammino di vita si è smarrito, era stato morto ed è tornato in vita. Nella prima Lettera di Giovanni sono definiti cristiani coloro che “sono passati dalla morte alla vita”. E anche Paolo dice di sé di essere morto e di essere defunto e di essere stato morto, ma di avere poi trovato la strada verso la vita, poiché “ciò che brama la carne è morte, mentre ciò che brama lo Spirito è vita e pace”, scrive.

Qui risulta chiaro che nella Bibbia la parola “vita” non è semplicemente la definizione per lo stato di un essere vivente dopo la sua nascita. Non solo l’origine, bensì anche la quintessenza della vita è Dio stesso. “Ha vita in se stesso”, si dice nel Vangelo di Giovanni.

Presso Dio c’è vita in abbondanza, mentre tra di noi – per le paure, le situazioni di bisogno, le abitudini e le strutture della quotidianità – la vita si realizza soltanto in forma ridotta. Ci orientiamo piuttosto verso quanto la Bibbia chiama “mondo”. Spesso qualcos’altro è praticamente impensabile. Dobbiamo fare in modo di guadagnarci da vivere e quindi siamo parte di un determinato sistema economico in questo mondo. Nella nostra convivenza dobbiamo sottostare alle leggi dello Stato. E non è nemmeno un male che ci sia tutto questo, ma laddove tutte le speranze della vita si basano soltanto sulle possibilità terrene, la vita diventa sempre più stretta. Delle promesse populistiche diventano allora la prospettiva di una vita migliore e applicare veramente l’approccio di tali promesse porta soltanto più in basso nella miseria.

Gesù ci ricorda invece che viviamo sì in questo mondo, ma che la vita piena non viene da questo mondo; viene da colui che è vita egli stesso, che “ha vita in se stesso”, da Dio. E “come il Padre ha vita in se stesso, così ha dato anche al Figlio di avere vita in se stesso”.

E così siamo invitati ad ascoltare la Parola del Figlio di Dio e a credere in colui che lo ha inviato. La sua Parola non è solamente un’espressione orale; Gesù è la Parola di Dio che si è fatta carne, con tutta la sua vita nel complesso egli esprime la volontà di Dio e l’amore di Dio verso noi uomini. Ci dobbiamo orientare verso di lui. Egli dice di se stesso: “Io sono la via, la verità e la vita”, “Io sono il pane della vita”, “Io sono la risurrezione e la vita”. Egli incarna l’esistenza in abbondanza senza alienazione. E così le sue parole potrebbero essere anche completate da affermazioni come “io sono la felicità che voi cercate così tanto”, “sono il vivo tra tutte le istituzioni morte con le quali voi vi dovete continuamente affannare”, “sono il senso nella confusione senza senso di interessi e pretese di potere che vi circonda”.

Egli ci invita a passare “già adesso” dalla morte alla vita. La parola corrispondente in greco nel testo originale significa all’incirca “cambiare abitazione”. Presso Cristo troviamo la vita. La vita, non necessariamente come benessere, ma la vita con una prospettiva che dà orientamento in questo mondo caotico, e che ci libera dalla paura. Collegati a Cristo veniamo messi nella posizione di accettare la vita in questo mondo sventurato così com’è, senza sottometterci a tutti i suoi criteri e pretese. E la morte fisica perde il suo aspetto spaventoso perché sperimentiamo che la vita è di più dello svolgimento di una fase tra nascere e morire.

È una consolazione quando pensiamo a coloro che hanno lasciato questo mondo prima di noi? Sì, credo che questo orientamento possa consolare. Non soltanto perché aiuta ad accettare anche le rotture, le separazioni e gli addii in questa vita, ma anche perché ricorda che la vita che viene da Dio è infinitamente più grande di ciò che la morte mette in dubbio.

L’efficacia di questa consolazione non la posso però trasmettere io come predicatore; la si trova in colui verso il quale posso soltanto richiamare l’attenzione, Gesù Cristo.

Traduzione dal tedesco di Katia Cavallito

Foto: Wodicka
Foto: Wodicka

Predigttext


Jesus sprach: Wahrlich, wahrlich, ich sage euch: Wer mein Wort hört und glaubt dem, der mich gesandt hat, der hat das ewige Leben und kommt nicht in das Gericht, sondern er ist vom Tode zum Leben hindurchgedrungen. Wahrlich, wahrlich, ich sage euch: Es kommt die Stunde und ist schon jetzt, dass die Toten hören werden die Stimme des Sohnes Gottes, und die sie hören, die werden leben. Denn wie der Vater das Leben hat in sich selber, so hat er auch dem Sohn gegeben, das Leben zu haben in sich selber; und er hat ihm Vollmacht gegeben, das Gericht zu halten, weil er der Menschensohn ist. Wundert euch darüber nicht. Es kommt die Stunde, in der alle, die in den Gräbern sind, seine Stimme hören werden, und es werden hervorgehen, die Gutes getan haben, zur Auferstehung des Lebens, die aber Böses getan haben, zur Auferstehung des Gerichts.

Liebe Gemeinde!

Am letzten Sonntag des Kirchenjahres denken wir an die Menschen, mit denen wir gemeinsam auf dem Lebensweg unterwegs waren, die aber inzwischen verstorben sind. Das können Vater oder Mutter sein, Ehepartner, Geschwister oder andere Verwandte, Freunde, Arbeitskollegen oder Menschen, die wir in anderen Zusammenhängen kennengelernt haben. 

An diese Menschen zurückzudenken kann einen mit Dankbarkeit erfüllen, Dankbarkeit für alles das, was mein Leben durch die betreffende Person bereichert hat. Vielleicht fallen einem aber auch schwierige Punkte in der Beziehung zu diesem Menschen ein. Und beides kann Schmerzen auslösen, denn es ist ja nun beides nicht mehr möglich: Weder kann ich gegenüber dieser Person meinen Dank ausdrücken, noch kann ich das, was unsere Beziehung belastet hat, mit ihr klären. Ganz davon abgesehen, dass vielleicht auch der Abschied schmerzhaft war und die Erinnerung daran es nicht weniger ist.

Was kann uns trösten in solch einer Lage? Vor allem hilft es sicherlich, wenn ich jemand habe, mit dem ich über meine Trauer reden kann. Der menschliche Beistand ist das, wofür unser Herz sich am leichtesten öffnet, wenn er denn von Liebe und Sensibilität getragen ist. Aber es gibt auch Grenzen des menschlichen Beistands. Manche innerlichen Abgründe können kaum ausgesprochen werden, und manchmal ist auch ein gutwilliger Mensch nicht in der Lage, den Schmerz seines Mitmenschen wirklich zu verstehen und angemessen darauf zu reagieren.

Kann uns der Glaube helfen? Als Christen glauben wir an „die Auferstehung der Toten und das ewige Leben“, wir haben es gerade miteinander bekannt. 

Ja sicher, das ist der Mittelpunkt des christlichen Glaubens. Eigentlich dürfte uns auf der Grundlage dieses Glaubens der Tod gar nichts anhaben können, weder der Tod unserer Lieben noch unser eigener. Aber es ist nicht immer einfach, so einen Glaubenssatz auf die eigene Situation zu übertragen.

Denn was bedeutet denn „ewiges Leben“? Jedenfalls ist es ja sicher nicht so, dass der Tod nur so eine Art von Schlaf wäre, zu dem man sich hinlegt und von dem man dann nach einiger Zeit wieder aufsteht und dann geht das Leben weiter, und zwar ohne Begrenzung. Gegen solche Vorstellungen hat sich schon der Apostel Paulus ausgesprochen, wie wir in der Epistellesung gehört haben. „Du Narr“, schreibt er, „was du säst wird nicht lebendig, wenn es nicht stirbt. Und was du säst, ist ja nicht der Leib, der werden soll, sondern ein bloßes Korn“. Hier wird der Tod nicht mit dem Schlaf verglichen, sondern mit dem Vorgang des Säens und Wachsens. Unser Leben wäre demnach so etwas wie ein Samenkorn, aus dem in der Auferstehung etwas ganz Neues erwächst, wie in der Natur eine Blume, ein Busch oder ein Baum. 

Das ewige Leben, das im Neuen Testament verkündet wird, ist also nicht einfach die Fortsetzung des Lebens, in das wir hier hineingeboren wurden. Es ist etwas viel komplexeres. Das wird noch deutlicher in dem Abschnitt, den wir als Evangelium gehört haben. Beim ersten Zuhören ist es vielleicht nicht aufgefallen, aber bei näherer Betrachtung wird klar, dass hier in zwei verschiedenen Weisen vom ewigen Leben gesprochen wird. Am Endes des Abschnitts sagt Jesus: „Es kommt die Stunde, der der alle, die in den Gräbern sind, die Stimme des Menschensohnes hören werden, und es werden hervorgehen, die Gutes getan haben, zur Auferstehung des Lebens, die aber Böses getan haben, zur Auferstehung des Gerichts.“ Das ist eine der Aussagen im Neuen Testament,  die die traditionelle Vorstellung von uns Christen davon, was nach dem Tod geschieht, geprägt haben. Sie lässt sich mit dem, was wir von Paulus gehört haben, einigermaßen gut verbinden, auch wenn hier zusätzlich noch vom Gericht die Rede ist.

 

Am Anfang des Abschnitts aber sagt Jesus etwas anderes: „Wahrlich, wahrlich, ich sage euch: Wer mein Wort hört und glaubt dem, der mich gesandt hat, der hat das ewige Leben und kommt nicht ins Gericht, sondern er ist vom Tode zum Leben hindurchgedrungen. Wahrlich, wahrlich, ich sage euch: Es kommt die Stunde und ist schon jetzt, dass die Toten hören werden die Stimme des Sohnes Gottes, und die sie hören werden, die werden leben.“ 

Der erste Teil davon klingt ganz ähnlich wie das, was ich zuvor vorgelesen habe. Dann aber heißt es ausdrücklich, dass „schon jetzt“ die Toten die Stimme Jesu hören werden. Was soll das bedeuten?

Man könnte versuchen, das so zu verstehen, dass mit dem Tod die Zeit endet, und dass dementsprechend das, was uns in diesem Leben als Zukunft erscheint, jenseits des Todes durchaus gleichzeitig mit unserem Erleben geschehen kann. 

Der Zusammenhang legt aber nahe, es anders zu verstehen. In der Bibel wird das Wort „Tod“ nämlich nicht nur für den Zustand verwendet, der nach dem Sterben eintritt. So heißt es zum Beispiel vom verlorenen Sohn, der sich auf seinem Lebensweg verlaufen hat, er sei tot gewesen und wieder lebendig geworden. (Lukas 15,24) Im 1. Johannesbrief werden die Christen als solche angesprochen, die „aus dem Tod in das Leben gekommen sind“ (1 Johannes 3,14). Und auch Paulus sagt von sich, er sei gestorben und tot gewesen (Römer 7,10), habe dann aber zum Leben gefunden. Denn „fleischlich gesinnt sein“ schreibt er, „ist der Tod und geistlich gesinnt sein ist Leben und Friede“. (Römer 8,6)  

Dabei wird deutlich, dass in der Bibel auch das Wort „Leben“ nicht einfach die Bezeichnung für den Zustand eines Lebewesens nach seiner Geburt ist. Nicht nur der Ursprung, sondern auch der Inbegriff des Lebens ist vielmehr Gott selbst. „Er hat das Leben in sich selber“ heißt es bei Johannes. 

Bei Gott ist das Leben in Fülle, während es bei uns durch Ängste, Nöte, Gewohnheiten und die Strukturen des Alltags oft nur reduziert vorhanden ist. Wir orientieren uns meist an dem, was die Bibel „Welt“ nennt. Oft ist etwas anderes auch kaum denkbar. Wir müssen sehen, dass wir unseren Lebensunterhalt verdienen und dadurch sind wir Teil eines bestimmten Wirtschaftssystems in dieser Welt. Wir sind im Zusammenleben den staatlichen Gesetzen unterworfen. Und es ist ja auch nicht schlecht, dass es das alles gibt. Aber dort, wo sich alle Hoffnungen des Lebens allein auf die weltlichen Möglichkeiten richten, dort wird das Leben immer enger. Populistische Versprechungen werden dann zum Horizont eines besseren Lebens und die Ansätze solche Versprechungen tatsächlich umzusetzen, führen nur tiefer ins Elend. 

Jesus hingegen erinnert uns daran, dass wir zwar in dieser Welt leben, dass aber das Leben in Fülle nicht aus dieser Welt kommt. Es kommt von dem, der selbst das Leben ist, der „das Leben in sich selber hat“, von Gott. Und „wie der Vater das Leben hat in sich selber“, so heißt es im Johannesevangelium weiter, „so hat er es auch dem Sohn gegeben, das Leben zu haben in sich selber.“ 

Und so werden wir eingeladen, auf das Wort des Sohnes Gottes zu hören und an den zu glauben, der ihn gesandt hat. Sein Wort ist nicht nur eine mündliche Äußerung. Jesus ist vielmehr das fleischgewordene Wort Gottes, er bringt durch sein Leben als Ganzes den Willen Gottes zum Ausdruck und die Liebe Gottes zu uns Menschen. An ihm sollen wir uns orientieren. Er sagt von sich selbst: „Ich bin der Weg, die Wahrheit und das Leben“ (Johannes 14,6a) „ich bin das Brot des Lebens“ (Johannes 6,35b), „ich bin die Auferstehung und das Leben“ (Johannes 11,25b). Er verkörpert das Dasein in Fülle ohne Entfremdung. Und so könnten seine Worte auch ergänzt werden durch Aussagen wie: „Ich bin das Glück, nach dem ihr euch sehnt“, „ich bin das Lebendige in all den toten Institutionen, mit denen Ihr euch herumschlagen müsst“, „ich bin der Sinn, in dem sinnlosen Durcheinander von Interessen und Machtansprüchen, das euch umgibt.“

Er lädt uns ein, „schon jetzt“ vom Tod zum Leben hinüberzuwechseln. Das entsprechende griechische Wort im Originaltext heißt so etwas wie „die Wohnung wechseln“. Bei Christus finden wir das Leben. Leben, nicht unbedingt als Wohlbefinden. Aber Leben mit einer Perspektive, die Orientierung verleiht in dieser unübersichtlichen Welt, und die von Angst befreit. Verbunden mit Christus werden wir in die Lage versetzt, das Leben in dieser unheilen Welt anzunehmen so wie es ist, ohne uns allen ihren Kriterien und Forderungen zu unterwerfen. Und der physische Tod verliert seinen Schrecken, weil wir erfahren, dass das Leben mehr ist als der Ablauf einer Phase zwischen geboren werden und sterben.

Ist das ein Trost, wenn wir an diejenigen denken, die vor uns diese Welt verlassen haben? Doch, ich glaube schon, dass diese Orientierung trösten kann. Nicht nur, weil sie hilft, auch die Brüche, Trennungen und Abschiede in diesem Leben anzunehmen, sondern auch weil sie darauf hinweist, dass das Leben, das von Gott kommt, unendlich viel größer ist als das, was der Tod in Frage stellt.

Die Wirksamkeit dieses Trostes kann allerdings nicht ich als Prediger vermitteln. Sie liegt bei dem, auf den ich nur hinweisen kann, bei Jesus Christus.

Pfarrer Heiner Bludau