20.06.2021 Testo della Predica - Predigttext


Dove e quando?


Domenica, 20 giugno 2021

ore 11


Culto per la 3a Domenica dopo Trinitatis

Luca 15, 1-10

Grafica - Graphik: Pfeffer
Grafica - Graphik: Pfeffer

Wo und Wann?


Sonntag, 20. Juni 2021

11 Uhr


Gottesdienst zum 3. Sonntag nach Trinitatis 

Lukas 15, 1-10  



Testo della Predica


Cara comunità!

Come lettura del vangelo oggi abbiamo sentito un brano biblico molto lungo. Credo però che lo si potesse ascoltare bene (oppure seguirne la traduzione scritta) perché si tratta di una storia avvincente.

Prima di questa storia nel Vangelo di Luca si trovano due brevi parabole sulle quali predicherò oggi. Adesso ve le leggo. Ripeto l’introduzione che abbiamo già sentito nella lettura del vangelo poiché si riferisce alla storia del figlio prodigo così come alle due parabole che la precedono.

Tutti i pubblicani e i peccatori si avvicinavano a lui per ascoltarlo. Ma i farisei e gli scribi mormoravano, dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro».

Ed egli disse loro questa parabola: «Chi di voi, avendo cento pecore, se ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e non va dietro a quella perduta finché non la ritrova? E trovatala, tutto allegro se la mette sulle spalle; e giunto a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: "Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la mia pecora che era perduta". Vi dico che, allo stesso modo, ci sarà più gioia in cielo per un solo peccatore che si ravvede che per novantanove giusti che non hanno bisogno di ravvedimento.

 

«Oppure, qual è la donna che se ha dieci dramme e ne perde una, non accende un lume e non spazza la casa e non cerca con cura finché non la ritrova? Quando l'ha trovata, chiama le amiche e le vicine, dicendo: "Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la dramma che avevo perduta". Così, vi dico, v'è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si ravvede».

Sia queste due parabole che la storia del figlio prodigo vanno a finire nello stesso modo: le figure principali delle quali si racconta sono felicissime di aver ritrovato ciò che avevano perso. E non vorrebbero tenere tutta per loro questa felicità, bensì la vorrebbero condividere con altri. Il padre è felice del fatto che il figlio che lo aveva abbandonato sia tornato. Il pastore si rallegra di poter riportare nel suo gregge la pecora che si era perduta. La donna si rallegra per aver ritrovato la moneta perduta. E vorrebbero condividere la loro contentezza con amici e vicini, con amiche e vicine, così come il padre festeggia con i suoi servi, con un banchetto, musica e danze, a cui invita anche il suo figlio maggiore.

Siccome si tratta di parabole, la gioia delle diverse persone si riferisce a uno solo: a Dio. Dio si rallegra di aver ritrovato qualcosa che era andato perso. Dio non si accontenta di una parte dell’umanità che lui ha creato. Egli vuole essere legato a tutti. Egli non obbliga nessuno. Non intraprende nessuna azione, come fanno invece i dittatori, per legare a sé la totalità di un popolo; egli ama ognuna e ognuno. Ogni singolo e ogni singola gli sta a cuore e fa tutto il possibile (e a volte addirittura cose che vanno al di là) per ricostruire il legame con ogni singola e singolo. Viene incontro a ogni singolo e ogni singola, lo cerca o la cerca e si rallegra infinitamente quando la sua ricerca ha successo.

Il fatto che si tratti dell’amore di Dio per ogni singolo essere umano è più chiaro nella storia del figlio prodigo perché qui si tratta davvero di una persona. Nelle altre due parabole questo non è così chiaro. In un qualche modo comprensibile lo è ancora nella storia del pastore che cerca e trova la pecora smarrita. Infatti Dio nella Bibbia viene spesso rappresentato come pastore. “Il SIGNORE è il mio pastore: nulla mi manca”, viene detto nel Salmo 23. In questo senso una persona si può senz’altro identificare con una pecora smarrita. Alle prime rappresentazioni di Gesù nell’arte cristiana appartiene l’immagine o la scultura di un pastore che porta una pecora in spalla, proprio come viene descritto nella parabola. Ognuna e ognuno di noi si può identificare in questa pecora ritrovata!

È un po’ più difficile il collegamento nella storia della donna che ha perso una moneta. Una moneta infatti non è niente di animato, è un oggetto. Con essa non ci possiamo identificare. Però il fatto che si tratti della fruttuosa ricerca di Dio degli esseri umani diventa chiaro nel versetto finale: «Così, vi dico, v’è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si ravvede». Una moneta non si può ravvedere, non ha neanche fatto niente per andare persa. L’uomo ritrovato da Dio o la donna ritrovata da Dio invece può ravvedersi. E ha personalmente contribuito eccome affinché la relazione con Dio andasse perduta. Nella storia del figlio prodigo questo è ben chiaro. È però anche chiaro che il ravvedérsi o il fare penitenza come viene detto in altre traduzioni qui non significa infliggersi una qualche autopunizione. Il ravvedimento qui non significa nient’altro che la risposta a Dio di una persona ritrovata. L’uomo riconosce di essere amato da Dio e quindi essere cercato e trovato da lui. E da questa consapevolezza nasce l’amore dell’uomo verso Dio. Dio non si aspetta nient’altro dall’uomo. L’uomo deve rispondere al suo amore. Questo è quello che qui si intende con “ravvedimento”. Egli si deve rivolgere a Dio nell’amore perché ha riconosciuto di essere amato da lui. Solo così, volontariamente, l’amore può essere vissuto. L’amore non lo si può costringere. E per questo la gioia di Dio è così grande quando riceve una risposta alla sua ricerca.

Anche se nella parabola della moneta perduta il paragone con le persone andate perdute non è chiaro come nelle altre due storie, qui è contenuto anche un altro aspetto molto interessante. Non solo viene sottolineata la ricerca accurata, ma in questo caso a ricercare è una donna. Non è frequente che nella Bibbia Dio venga paragonato a una donna poiché la Bibbia è nata in un periodo altamente patriarcale. Ma come possiamo vedere in questo e in altri punti, questo paragone non è escluso. Dio non è una figura maschile, è tanto femminile quanto maschile, ovvero più di tutti e due questi aspetti.

Un altro dettaglio interessante si trova nella storia del pastore che si mette alla ricerca della pecora smarrita. In modo simile all’altra parabola, questa storia inizia con una domanda: «Chi di voi, avendo cento pecore, se ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e non va dietro a quella perduta finché non la ritrova?». Solitamente questo viene esposto in maniera tale che Gesù che racconta la parabola fa riferimento a ciò che tra i pastori è un comportamento ritenuto normale. Non ne sono però sicuro al cento percento: un pastore abbandona davvero tutto il suo gregge nel deserto per cercare una singola pecora smarrita? Potrebbe anche essere che questa domanda abbia un carattere provocatorio: Dio si occupa molto di più di ogni singola e singolo di quanto non sia possibile persino ai pastori più consci delle proprie responsabilità. Infatti tali pastori forse dovrebbero innanzitutto far sì che non succeda niente alle altre pecore prima di mettersi alla ricerca della pecora smarrita.

Questa riflessione ci porta a coloro ai quali si rivolge Gesù nelle tre storie. Si tratta di Farisei e “scribi”, dottori della legge; sono dei particolari gruppi di persone tra gli Israeliti. In un certo modo sono legati a Dio in maniera molto più forte dei “pubblicani e peccatori” ai quali si rivolge Gesù. Forse si vedono anche loro come pastori del popolo. Da loro non si pretende nessun ravvedimento, ma vivono in pericolo. Infatti “mormorando” che Gesù accoglie i peccatori e mangia con loro, a loro sembrano più importanti le loro proprie concezioni di fede della volontà di Dio. Nell’Antico Testamento il popolo di Israele dopo l’uscita dall’Egitto nella peregrinazione nel deserto “mormora” in continuazione, e questo è espressione della sua miscredenza. Il pericolo dei Farisei consiste nel non volersi far invitare a rallegrarsi con Dio per il fatto che egli abbia ritrovato un peccatore che si era smarrito… così poco come lo vuole fare il fratello del figlio andato perduto che ritorna a casa. Vogliono molto più insistere sul loro concetto di giustizia. Si occupano delle pecore del loro gregge, le pecore perdute però non interessano loro.

E questo ci dovrebbe dare da pensare. Infatti anche noi speso tendiamo a sviluppare un concetto di vita chiuso con molte limitazioni, anche se noi ci riteniamo cristiani. Oggi è la Giornata mondiale dei profughi. Certo, i profughi sono un’altra cosa dei peccatori e non chiedono necessariamente di Gesù, ma se ci vogliamo far invitare da Dio a rallegrarci con lui del nuovo contatto verso delle persone che hanno interrotto questo contatto, questo ci apre un orizzonte molto vasto. In questo vasto orizzonte non si tratta di legarci soltanto a chi è della nostra stessa idea. Dobbiamo guardare verso Cristo e se lo facciamo scateniamo una grande gioia in Dio. Questa gioia la dobbiamo condividere non soltanto tra di noi, nella famiglia, tra amici, nella nostra chiesa, bensì anche oltre, con persone da tutta la nazione e anche da altre nazioni, con bisognosi così come con ricchi e naturalmente anche con i profughi. Molto riguardo alla convivenza dell’umanità in tutto il mondo dipende da strutture politiche e statali. Ma anche in qualità di singoli ci viene chiesto di dare il nostro contributo. Dio, che guarda verso ognuna e ognuno, e che ci invita a condividere con lui la sua gioia, è la sorgente dalla quale prendiamo il coraggio e la forza per vivere in questo modo.

Traduzione dal tedesco di Katia Cavallito

Foto: epd-bild
Foto: epd-bild
Grafica - Graphik: Mester
Grafica - Graphik: Mester

"E chi mi garantisce che Lei non sia un rifugiato illegale...!?!"


Predigttext


Liebe Gemeinde!

Als Evangeliumslesung haben wir heute einen sehr langen Bibelabschnitt gehört. Aber ich denke, man konnte gut zuhören (bzw. der schriftlichen Übersetzung folgen), denn es handelt sich dabei ja um eine spannende Geschichte.

Vor dieser Geschichte gibt es im Lukasevangelium zwei kurze Gleichnisse, über die ich heute predigen werde. Ich lese sie jetzt vor. Dabei wiederhole ich die Einleitung, die wir schon bei der Lesung des Evangeliums gehört haben, denn sie bezieht sich auf die Geschichte vom verlorenen Sohn ebenso wie auf die beiden Gleichnisse davor.

Es nahten sich ihm aber alle Zöllner und Sünder, um ihn zu hören. Und die Pharisäer und die Schriftgelehrten murrten und sprachen: Dieser nimmt die Sünder an und isst mit ihnen.

Er sagte aber zu ihnen dies Gleichnis und sprach: Welcher Mensch ist unter euch, der hundert Schafe hat und, wenn er eines von ihnen verliert, nicht die neunundneunzig in der Wüste lässt und geht dem verlorenen nach, bis er’s findet? Und wenn er’s gefunden hat, so legt er sich’s auf die Schultern voller Freude. Und wenn er heimkommt, ruft er seine Freunde und Nachbarn und spricht zu ihnen: Freut euch mit mir; denn ich habe mein Schaf gefunden, das verloren war. Ich sage euch: So wird auch Freude im Himmel sein über einen Sünder, der Buße tut, mehr als über neunundneunzig Gerechte, die der Buße nicht bedürfen.

Oder welche Frau, die zehn Silbergroschen hat und einen davon verliert, zündet nicht ein Licht an und kehrt das Haus und sucht mit Fleiß, bis sie ihn findet? Und wenn sie ihn gefunden hat, ruft sie ihre Freundinnen und Nachbarinnen und spricht: Freut euch mit mir; denn ich habe meinen Silbergroschen gefunden, den ich verloren hatte. So, sage ich euch, ist Freude vor den Engeln Gottes über einen Sünder, der Buße tut.

Sowohl diese beiden Gleichnisse als auch die Geschichte vom verlorenen Sohn laufen auf dasselbe Ergebnis hinaus: Die zentralen Gestalten, von denen erzählt wird, freuen sich riesig darüber, dass sie wiedergefunden haben, was sie verloren hatten. Und sie möchten diese Freude nicht nur für sich behalten, sondern sie mit anderen teilen. Der Vater freut sich, dass der Sohn, der ihn verlassen hat, zurückgekommen ist. Der Hirte freut sich, dass er das Schaf, das verloren gegangen ist, zu seiner Herde zurückbringen kann. Die Frau freut sich, dass sie die verlorene Münze wiedergefunden hat. Und sie möchten ihre Freude feiern mit Freunden und Nachbarn (15,6), mit Freundinnen und Nachbarinnen (15,9), so wie der Vater mit seinen Knechten feiert, mit einem Festmahl mit Singen und Tanzen , wozu er ausdrücklich auch seinen älteren Sohn einlädt.

Da es sich um Gleichnisse handelt, bezieht sich die Freude der verschiedenen Personen auf einen und denselben: auf Gott. Gott freut sich darüber, Verlorenes wiedergefunden zu haben. Gott begnügt sich nicht mit einem Teil der von ihm erschaffenen Menschheit. Er will mit allen Menschen verbunden sein. Er zwingt niemand dazu. Er unternimmt keine Maßnahmen, wie es Diktatoren tun, um die Gesamtheit eines Volkes an sich zu binden. Er liebt jede Einzelne und jeden Einzelnen. Jeder und jede Einzelne liegt ihm am Herzen und er unternimmt alles Mögliche (und vielleicht manchmal sogar Dinge darüber hinaus) um die Verbindung mit jeder und jedem Einzelnen wieder herzustellen. Er kommt jedem Einzelnen entgegen, sucht ihn oder sie, und freut sich unendlich, wenn seine Suche erfolgreich ist. 

Dass es dabei um die Liebe Gottes zu jedem einzelnen Menschen geht, ist am deutlichsten in der Geschichte vom verlorenen Sohn, denn hier geht es ja wirklich um einen Menschen. In den beiden anderen Gleichnissen ist das nicht so ganz klar. Einigermaßen nachvollziehbar ist es wohl noch in der Geschichte des Hirten, der das verlorene Schaf sucht und findet. Denn Gott wird in der Bibel ja häufig als Hirte dargestellt. „Der Herr ist mein Hirte, mir wird nichts mangeln“ heißt es im 23. Psalm. In diesem Sinne kann sich ein Mensch mit einem verlorenen Schaf durchaus identifizieren. Zu den frühesten Darstellungen von Jesus in der christlichen Kunst gehört das Bild oder die Skulptur eines Hirten, der ein Schaf auf seiner Schulter trägt, genau so, wie es in dem Gleichnis beschrieben wird. Jede und jeder von uns darf sich mit diesem wiedergefundenen Schaf identifizieren!

Etwas schwieriger ist der Zusammenhang in der Geschichte der Frau, die eine Münze verloren hat. Eine Münze ist nichts Lebendiges, sie ist ein Objekt. Mit ihr können wir uns nicht identifizieren. Dass aber dennoch die erfolgreiche Suche Gottes nach den Menschen damit gemeint ist, wird im abschließenden Vers deutlich: „So, sage ich euch, wird Freude sein vor den Engeln Gottes über einen Sünder, der Buße tut“ (15,10). Eine Münze kann keine Buße tun, sie hat auch nichts dazu beigetragen, dass sie verloren gegangen ist. Aber der Mensch, der von Gott wiedergefunden wird, kann Buße tun. Und er hat durchaus selbst etwas dazu beigetragen, dass die Verbindung mit Gott verloren gegangen ist. In der Geschichte vom verlorenen Sohn wird das ganz klar. Es wird dabei aber auch klar, dass Buße hier nicht bedeutet, irgendwelche Selbstbestrafungen durchzuführen. Buße bedeutet hier nichts anderes, als die Antwort eines wiedergefundenen Menschen an Gott. Der Mensch erkennt, von Gott geliebt zu sein und deshalb von ihm gesucht und gefunden worden zu sein. Und aus dieser Erkenntnis entsteht die Liebe des Menschen zu Gott. Nichts anderes erwartet Gott vom Menschen. Der Mensch soll ihm auf seine Liebe antworten. Das ist hier mit „Buße“ gemeint. Er soll sich in Liebe auf Gott ausrichten, weil er erkannt hat, dass er von ihm geliebt wird. Nur so, aus freien Stücken kann die Liebe gelebt werden. Liebe kann man nicht erzwingen. Und deshalb ist die Freude Gottes so groß, wenn er auf seine Suche hin eine Antwort bekommt. 

Auch wenn im Gleichnis vom verlorenen Groschen der Vergleich mit verloren gegangenen Menschen nicht so offensichtlich ist wie in den anderen beiden Geschichten, so ist hier noch ein sehr interessanter Aspekt enthalten. Nicht nur, dass die intensive Suche unterstrichen wird, es ist in diesem Fall eine Frau, die sucht. Es ist nicht häufig, dass in der Bibel Gott mit einer Frau verglichen wird, denn die Bibel ist in einer sehr patriarchalisch geprägten Zeit entstanden. Aber, wie wir an dieser – und auch an einigen anderen Stellen – wahrnehmen können: dieser Vergleich ist auch nicht ausgeschlossen. Gott ist keine männliche Gestalt, er ist ebenso weiblich wie männlich, beziehungsweise mehr als beides.

Ein anderes bemerkenswertes Detail findet sich in der Geschichte des Hirten, der sich auf die Suche nach dem verlorenen Schaf macht. Ähnlich wie das andere Gleichnis beginnt diese Geschichte mit einer Frage: „Welcher Mensch ist unter euch, der hundert Schafe hat und, wenn er eins von ihnen verliert, nicht die neunundneunzig in der Wüste lässt und geht dem verlorenen nach, bis er’s findet“? (15,4) Üblicherweise wird das so ausgelegt, dass Jesus, der das Gleichnis erzählt, an das erinnert, was unter den Hirten ein ganz normales Verhalten sei. Ich bin mir darüber allerdings nicht so sicher. Lässt ein Hirte wirklich seine ganz Herde in der Wüste zurück um ein einzelnes verlorenes Schaft zu suchen? Es könnte durchaus auch sein, dass diese Frage einen etwas provokativen Charakter hat. Gott kümmert sich viel mehr um jede und jeden einzelnen, als selbst verantwortungsvollen Hirten dies möglich ist. Denn vielleicht müssen solche Hirten ja in erster Linie darauf achten, dass den anderen Schafen ihrer Herde nichts zustößt, bevor sie sich auf die Suche nach dem verlorenen Schaf machen.

Diese Überlegung führt uns zu denjenigen, an die Jesus die drei Geschichten richtet. Es handelt sich um Pharisäer und Schriftgelehrte. Das sind bestimmte Personengruppen unter den Israeliten. In gewisser Hinsicht sind sie viel stärker mit Gott verbunden, als die „Zöllner und Sünder“, denen sich Jesus zuwendet. Vielleicht verstehen auch sie sich als Hirten des Volkes. Von ihnen wird keine Buße gefordert. Aber sie leben in Gefahr. Denn indem sie darüber „murren“, dass Jesus sich den Sündern zuwendet und mit ihnen isst, scheint es ihnen mehr um ihre eigenen Glaubensvorstellungen zu gehen als um den Willen Gottes. Im Alten Testament „murrt“ das Volk Israel nach dem Auszug aus Ägypten bei der Wanderung durch die Wüste ständig, und das ist Ausdruck ihres Unglaubens. Die Gefahr der Pharisäer besteht darin, dass sie sich nicht einladen lassen wollen, sich mit Gott zu freuen darüber, dass er einen verlorenen Sünder wiedergefunden hat – so wenig wie der Bruder des verlorenen und zurückgekehrten Sohnes es will. Sie wollen vielmehr auf ihrem eigenen Konzept von Gerechtigkeit bestehen. Sie kümmern sich um die Schafe ihrer Herde, verlorene Schafe aber interessieren sie nicht.

Und das sollte uns zu denken geben. Denn auch wir neigen oft dazu, ein geschlossenes Lebenskonzept mit vielen Abgrenzungen zu entwickeln, auch wenn wir uns als Christen verstehen. Heute ist der Weltflüchtlingstag. Sicher, Flüchtlinge sind etwas anderes als Sünder und sie fragen auch nicht unbedingt nach Jesus. Aber wenn wir uns von Gott einladen lassen, uns mit ihm zu freuen über den neuen Kontakt zu Menschen, die diesen Kontakt abgebrochen hatten, dann öffnet uns das einen sehr weiten Horizont. In diesem weiten Horizont geht es nicht darum, uns nur mit denjenigen zu verbinden, mit deren Auffassung wir übereinstimmen. Wir sollen auf Christus schauen und lösen, wenn wir das tun, bei Gott große Freude aus. Diese Freude sollen wir teilen, nicht nur unter uns, in der Familie, unter Freunden, in unserer Kirche, sonder auch darüber hinaus, mit Menschen, aus dem ganzen Land und auch aus anderen Ländern, mit Bedürftigen  ebenso wie mit Reichen und natürlich auch mit Flüchtlingen. Vieles hängt in Hinsicht auf das Zusammenleben der Menschheit auf der ganzen Welt von politischen und staatlichen Strukturen ab. Aber auch als Einzelne sind wir gefragt, unseren Beitrag zu leisten. Gott, der auf jede Einzelne und jeden Einzelnen schaut und uns einlädt seine Freude mit uns zu teilen, ist die Quelle, aus der wir den Mut und die Kraft beziehen, in dieser Weise zu leben.