09.05.2021 Testo della Predica - Predigttext


Dove e quando?


Domenica, 9 maggio 2021

ore 11


Culto

 

Rogate

Siracide: 35,13-18

Foto: Lotz
Foto: Lotz
Foto: Nahler
Foto: Nahler

Wo und Wann?


Sonntag, 9. Mai 2021

11 Uhr


Gottesdienst

Rogate

Jesus Sirach 35,16-22a



Testo della Predica


Cara comunità!

Nelle letture bibliche di oggi si parla della preghiera. L’epistola menziona diverse forme di preghiera e nel vangelo Gesù per mezzo di una parabola invita a pregare.

Dovrei predicare oggi su un ulteriore brano biblico che tratta il tema della preghiera. Questo testo però in molte edizioni della Bibbia non è contenuto. Esso è tratto dal Libro del Siracide, un libro redatto nel tardo periodo dei testi anticotestamentari. Nella Bibbia ebraica non è stato accolto, in quella cristiana invece sì, ma soltanto in una traduzione greca. Al tempo della Riforma l’Antico Testamento è stato limitato dai Riformatori agli scritti ebraici. Da Martin Lutero le scritture più tarde in lingua greca non sono state invece escluse completamente. Nella Bibbia egli creò una propria parte tra il Vecchio e il Nuovo Testamento per i libri cosiddetti deuterocanonici. Come introduzione egli scrisse: “Sono dei libri che non sono ritenuti dello stesso valore della Sacra Scrittura, eppure sono utili ed è bene leggerli”. E così in molte edizioni luterane della Bibbia si trova anche il Libro di Gesù figlio di Sirach, detto il Siracide. Nelle edizioni protestanti italiane però non è contenuto.

Il brano di oggi dal Libro del Siracide ci può aiutare a riflettere sulla pratica della preghiera. Questo mi sembra molto utile nella situazione attuale.

(Dio) non è parziale con nessuno contro il povero, anzi ascolta proprio la preghiera dell'oppresso. Non trascura la supplica dell'orfano né la vedova, quando si sfoga nel lamento. Le lacrime della vedova non scendono forse sulle sue guance e il suo grido non si alza contro chi gliele fa versare?

Chi venera Dio sarà accolto con benevolenza, 

la sua preghiera giungerà fino alle nubi. La preghiera dell'umile penetra le nubi, finché non sia arrivata, non si contenta; non desiste finché l'Altissimo non sia intervenuto, rendendo soddisfazione ai giusti e ristabilendo l'equità.

Qui si tratta di due aspetti della preghiera. Essi non ci aiutano soltanto a comprendere in modo giusto la preghiera, ma ci aiutano soprattutto nella preghiera stessa, cioè nella pratica. Si tratta del motivo della preghiera e del suo effetto.

Per prima cosa quindi che cosa ci porta a pregare? Fondamentalmente si può dire questo: la preghiera è comunicazione con Dio e questa non dovrebbe solo consistere nel chiedere qualcosa a Dio. Anche la lode e il ringraziamento appartengono alla preghiera e quando questi mancano si corre il rischio che chi prega faccia solo caso a ciò che gli o le manca. Dalla lode e dalla riconoscenza può nascere una grande gioia nella vita e nessuno vi dovrebbe rinunciare.

Però il motivo per abituarsi alla preghiera, cioè per arrivare a un continuo dialogo con Dio, può essere senz’altro la mancanza per cui una persona soffre. Il Siracide parla nella prima parte del brano che ho appena letto di persone in momenti di bisogno; vengono menzionati dei “poveri”, degli “oppressi”, degli “orfani” e delle “vedove”. Non lo si deve interpretare però come se si trattasse qui solo di particolari situazioni di bisogno. Anzi, i gruppi di persone menzionati nella Bibbia rappresentano in modo molto generico quelle parti della popolazione alle quali mancano le condizioni fondamentali per una forma di vita adeguata. E quindi penso che di fronte alla pandemia noi tutti ci possiamo riconoscere in un certo senso in questa cerchia di persone. Qualunque aspetto abbia concretamente, qualcuno o qualcuna si sente oppresso/oppressa dal virus o dalle misure prese per contrastarlo, qualcuno nel frattempo si è anche impoverito economicamente o qualcuno si sente abbandonato e solo come un orfano o una vedova.

L’importante è: l’emergenza non separa da Dio. “Dio non è parziale con nessuno contro il povero”. Egli non disprezza nessuno. Nel brano biblico si parla poi di come le persone che sono in una situazione disperata esprimano ciò: si parla di “supplica” e di “lamento”, di “grido” e di “lacrime” che scendono. Con questo si menziona tutta la gamma di sfoghi emozionali possibili. Ognuno e ognuna di noi si può ritrovare qui nell’espressione a lui o a lei più consona. Qualcuno si lamenta in modo molto contenuto e sommessamente al telefono anche se sta veramente male; qualcun altro si sente sopraffatto a tal punto da non poter far altro che piangere e gridare.

Le diverse espressioni di sentimenti nel brano non sono però il vero scopo della rappresentazione. Quello che conta è la preghiera: i sentimenti non devono essere semplicemente espressi, bensì espressi davanti a Dio.

A prima vista sembra molto semplice; chi si lamenta o urla può rivolgere a Dio l’espressione dei suoi sentimenti dicendo prima della lamentela: “Guarda, caro Dio, come sto male!” oppure aggiungere dopo “…è così che mi sento. Aiutami, caro Dio!”.

A volte questo va benissimo così. Chi però si è abituato di più alla preghiera sente forse che in questa ci sono anche altre cose che hanno importanza. Non sempre i nostri propri sentimenti ci sono chiari appieno. A volte ci si sente malissimo senza sapere di preciso quale ne sia la causa. Portare la propria situazione davanti a Dio può allora significare anche avere le idee un po’ più chiare su questa causa. Non è il caso che la propria situazione venga analizzata in modo approfondito. Se però la preghiera è una supplica, vale la pena soffermarsi a riflettere su questa domanda: che cosa voglio chiedere in realtà a Dio? E questa riflessione può portare ad avere un po’ più chiari i propri sentimenti.

Papa Francesco di recente durante un’udienza generale ha parlato della “preghiera vocale”. In quest’occasione ha messo in evidenza quanto sia utile non solo ripetere delle preghiere già impostate, bensì formulare noi stessi delle preghiere. In questo contesto ha detto: “Le parole nascono dai sentimenti, ma esiste anche il cammino inverso: quello per cui le parole modellano i sentimenti. La Bibbia educa l’uomo a far sì che tutto venga alla luce della parola, che nulla di umano venga escluso, censurato. Soprattutto il dolore è pericoloso se rimane coperto, chiuso dentro di noi… Un dolore chiuso dentro di noi, che non può esprimersi o sfogarsi, può avvelenare l’anima; è mortale.

È per questa ragione che la Sacra Scrittura ci insegna a pregare anche con parole talvolta audaci”.

 

I sentimenti possono diventare chiari a noi stessi se li esprimiamo in parole. E le parole formulate possono cambiare e caratterizzare i sentimenti. Questo è un passo intermedio importante nella preghiera. Nel Siracide si tratta però anche di un altro effetto della preghiera. Infatti la preghiera è un’altra cosa dall’allenamento psicologico. Se chiedo qualcosa a Dio, mi aspetto che egli reagisca a questa richiesta, cioè che si verifichi concretamente un cambiamento. Posso però davvero contare su questo?

Il Siracide risponde a questa domanda con un’immagine. Innanzitutto parla della “benevolenza” con la quale Dio accoglie la preghiera. Si tratta però soltanto di una sorta di conferma di ricezione. Infatti nel Siracide si parla poi di una lunga strada della preghiera: “giunge fino alle nubi”, “penetra le nubi” e non è ancora arrivata nemmeno allora. Evidentemente può durare molto tempo prima che “l’Altissimo intervenga”. E fino ad allora chi prega non riceve nessuna risposta, “non si contenta”. In questo è importante che chi prega però “non desista”. Ed è altrettanto importante che la preghiera sia legata a un atteggiamento di vita nel quale Dio non venga visto semplicemente come un curatore delle richieste, bensì come interlocutore determinante sotto ogni aspetto. Onorare e servire Dio appartengono a questi presupposti, e anche l’umiltà nei suoi confronti.

Di conseguenza chi prega non può contare sul fatto che la sua preghiera venga subito esaudita. Immagino che a nessuno tra di noi questa affermazione stupisca. Noi tutti abbiamo già vissuto l’esperienza di aver pregato Dio per qualcosa senza successo immediato. Ciò che è determinante però è qualcos’altro. Determinante è l’ultima frase del brano nella quale si dice che Dio – se chi prega non desiste – renderà soddisfazione ai giusti e farà arrivare loro ciò di cui hanno bisogno. Naturalmente non desistere non significa qui ripetere in continuazione la stessa preghiera. Vuol dire piuttosto insistere nel vivere la propria vita nella fede. E nella fede in Gesù Cristo veniamo giustificati in un modo come non ci sarebbe possibile con le nostre proprie forze. E così arriveremo alla meta.

Ecco che cos’è quindi la preghiera: ci porta fuori che sperimentiamo nella vita, ci porta verso Dio. Il tempo che serve alla preghiera per penetrare le nubi è a nostra disposizione per rivolgerci sempre più verso Dio. Alla fine Dio ci darà ciò di cui abbiamo bisogno. E sarà molto più di quello di cui lo abbiamo pregato.

Traduzione dal tedesco di Katia Cavallito

Grafica-Graphik: Pfeffer
Grafica-Graphik: Pfeffer

Predigttext


Liebe Gemeinde!

In den heutigen Bibellesungen geht es um das Gebet. Die Epistel nennt verschiedene Formen des Gebets und im Evangelium lädt Jesus mit einem Gleichnis zum Gebet ein.

Predigen soll ich heute über einen weiteren biblischen Abschnitt, der vom Gebet handelt. Dieser Text ist allerdings in vielen Bibelausgaben gar nicht enthalten. Er stammt aus dem Buch „Jesus Sirach“, das in der Spätzeit der alttestamentlichen Schriften verfasst wurde. In den jüdischen Kanon wurde es nicht aufgenommen, wohl aber in den christlichen, allerdings nur in einer griechischen Übersetzung. Zur Zeit der Reformation wurde dann von den Reformatoren das Alte Testament auf die hebräischen Schriften begrenzt. Von Martin Luther wurden die spät entstandenen Schriften in griechischer Sprache allerdings nicht völlig ausgeschlossen. Er schuf in der Bibel zwischen Altem und Neuem Testament einen eigenen Abschnitt für sogenannte „apokryphe“ Schriften. Als Einleitung dazu schrieb er: „Das sind Bücher, so der Heiligen Schrift nicht gleich gehalten und doch nützlich und gut zu lesen sind.“ Und so ist in vielen lutherischen Bibelausgaben auch das Buch von Jesus Sirach zu finden. In den protestantischen italienischen Ausgaben allerdings ist es nicht enthalten.

Der heutige Abschnitt aus dem Sirach-Buch kann uns helfen, über die Praxis des Gebets nachzudenken. Das scheint mir in der derzeitigen Situation sehr sinnvoll zu sein.

Gott hilft dem Armen ohne Ansehen der Person und erhört das Gebet des Unterdrückten. Er verachtet das Flehen der Waisen nicht noch die Witwe, wenn sie ihre Klage erhebt. Laufen ihr nicht die Tränen die Wangen hinunter, und richtet sich ihr Schreien nicht gegen den, der die Tränen fließen lässt? 

Wer Gott dient, den nimmt er mit Wohlgefallen an, und sein Gebet reicht bis in die Wolken. 

Das Gebet eines Demütigen dringt durch die Wolken, doch bis es dort ist, bleibt er ohne Trost, und er lässt nicht nach, bis der Höchste sich seiner annimmt und den Gerechten ihr Recht zuspricht und Gericht hält. 

Es geht hier um zwei Aspekte des Gebets. Sie helfen uns nicht nur dabei, das Gebet richtig zu verstehen, sondern sie helfen uns vor allem beim Beten selbst, also in der Praxis. Es geht um den Anlass des Gebets und um seine Wirkung.

Zunächst also: Was bringt uns zum Beten? Grundsätzlich kann man sagen: Gebet ist Kommunikation mit Gott und diese sollte nicht nur darin bestehen, dass man Gott um etwas bittet. Auch Lob und Dank gehört zum Gebet, und wenn das fehlt, besteht die Gefahr, dass der Beter oder die Beterin nur auf das sieht, was ihm oder ihr fehlt. Aus Lobpreis und Dankbarkeit kann große Freude am Leben entstehen, und darauf sollte niemand verzichten.

Aber der Anlass, um ins Gebet hineinzuwachsen, also um ins kontinuierliche Gespräch mit Gott zu kommen, kann durchaus der Mangel sein, unter dem jemand leidet. Jesus Sirach spricht in dem ersten Teil des Abschnitts, den ich eben vorgelesen habe, von Menschen in Not. „Arme“ werden genannt, „Unterdrückte“, „Waisen“ und „Witwen“. Das muss man aber nicht so verstehen, als ginge es hier nur um ganz bestimmte Nöte. Im Gegenteil: Die genannten Personengruppen repräsentieren in der Bibel ganz allgemein diejenigen Teile in der Bevölkerung, denen die grundsätzlichen Voraussetzungen für eine angemessene Lebensform fehlen. Und so denke ich, dass wir uns angesichts der Pandemie in gewisser Hinsicht alle in diesem Personenkreis wiedererkennen können. Wie auch immer das konkret aussehen mag: Manche oder manche fühlt sich durch den Virus oder durch die Maßnahmen unterdrückt, jemand ist auch materiell inzwischen verarmt, oder jemand fühlt sich verlassen und alleine wie ein Waise oder eine Witwe. 

Entscheidend ist: Die Not trennt nicht von Gott. „Gott hilft dem Armen ohne Ansehen der Person“. Er verachtet niemanden. In dem Bibelabschnitt ist dann davon die Rede, wie Menschen, die sich in Not befinden, dies zum Ausdruck bringen: Von „Flehen“ ist die Rede und von „Klagen“, von „Schreien“ und von „Tränen“, die fließen. Die ganze Bandbreite von möglichen Gefühlsausbrüchen wird damit genannt. Jeder und jede von uns kann sich hier in der Äußerung wiederfinden, die ihm oder ihr am besten entspricht. Mancher klagt nur ganz verhalten und leise im Gespräch am Telefon, obwohl es ihm wirklich schlecht geht, jemand anderes fühlt sich derart überwältigt, dass er oder sie gar nicht anders kann als zu weinen und zu schreien.

Allerdings sind die unterschiedlichen Ausdrücke von Gefühlen in dem Abschnitt nicht das eigentliche Ziel der Darstellung. Worum es geht, ist das Gebet. Die Gefühle sollen also nicht einfach zum Ausdruck gebracht werden, sondern sie sollen vor Gott gebracht werden. 

Das sieht zunächst ganz einfach aus. Wer klagt oder schreit, kann seine Gefühlsäußerung ja dadurch an Gott richten, dass er vor der Klage sagt: „Schau her, lieber Gott, wie dreckig es mir geht …“ oder danach hinzufügt: „… so fühle ich mich! Hilf mir doch, lieber Gott!“.

Manchmal ist das wohl auch völlig in Ordnung so. Wer allerdings etwas weiter ins Gebet hineingewachsen ist, der spürt vielleicht, dass dabei doch auch noch andere Dinge wichtig sind. Nicht immer sind einem die eigenen Gefühle so ganz klar. Manchmal fühlt man sich einfach nur miserabel und weiß gar nicht genau, was konkret denn eigentlich die Ursache davon ist. Die eigene Lage vor Gott zu bringen, kann dann auch bedeuten, sich ein wenig klarer über sie zu werden. Dabei muss die eigene Situation nicht tiefgründig analysiert werden. Aber wenn das Gebet eine Bitte ist, dann lohnt es sich schon, darüber nachzudenken: worum will ich Gott denn eigentlich bitten? Und dieses Nachdenken kann dazu führen, dass man sich über seine Gefühle etwas klarer wird. 

Papst Franziskus hat neulich während einer Generalaudienz über das „mündliche Gebet“  gesprochen. Er hob dabei hervor, dass es hilfreich sei, nicht nur vorformulierte Gebete nachzusprechen, sondern selbst Gebete zu formulieren. Wörtlich sagte er in diesem Zusammenhang: „Worte werden aus Gefühlen geboren, aber es gibt auch den umgekehrten Weg: den, dass Worte Gefühle formen. Die Bibel erzieht den Menschen dazu, dass alles durch das Wort ans Licht kommt, dass nichts Menschliches ausgeschlossen oder zensiert wird. Schmerz ist vor allem dann gefährlich, wenn er zugedeckt, in uns verschlossen bleibt.... Ein Schmerz, der in uns eingeschlossen ist, der sich nicht ausdrücken oder sich keine Luft machen kann, kann die Seele vergiften; er ist tödlich. Aus diesem Grund lehrt uns die Heilige Schrift, auch mit manchmal kühnen Worten zu beten.“ 

 

Gefühle können einem klar werden, wenn man sie in Worte fasst. Und formulierte Worte können Gefühle verändern und prägen. Das ist ein wichtiger Zwischenschritt im Gebet. Bei Jesus Sirach geht es aber noch um eine andere Wirkung des Gebets. Denn das Gebet ist ja etwas anderes als ein psychologisches Training. Wenn ich Gott um etwas bitte, dann erwarte ich, dass er auf diese Bitte eingeht, dass also konkret eine Änderung eintritt. Kann ich aber wirklich damit rechnen?

Jesus Sirach antwortet auf diese Frage mit einem Bild. Zunächst spricht er vom „Wohlgefallen“, mit dem Gott das Gebet annimmt. Das ist aber nur so etwas wie eine Eingangsbestätigung. Denn dann ist bei Sirach von einem langen Weg des Gebets die Rede. Es „reicht bis in die Wolken“, „dringt durch die Wolken“ und ist dann  immer noch nicht am Ziel. Es kann offenbar ganz schön lange dauern, „bis der Höchste sich seiner annimmt“. Und bis dahin erhält der Beter keine Antwort, sondern „bleibt ohne Trost“. Wichtig dabei ist, dass der Beter dabei dennoch „nicht nachlässt“. Und ebenso wichtig ist, dass das Gebet eingebunden ist in eine Lebenshaltung, in der Gott nicht nur als Bearbeiter von Bitten verstanden wird, sondern als entscheidendes Gegenüber in jeder Hinsicht. Gott zu ehren und ihm zu dienen gehört zu diesen Voraussetzungen, und auch die Demut ihm gegenüber. 

Demnach kann der Beter nicht damit rechnen, dass die Bitte, die er oder sie äußert, sofort in Erfüllung geht. Ich nehme an, dass niemanden hier unter uns diese Feststellung verwundert. Denn wir alle haben wohl schon die Erfahrung gemacht, dass wir Gott ohne unmittelbaren Erfolg um etwas gebeten haben. Entscheidend ist aber etwas anderes. Entscheidend ist der letzte Satz des Abschnitts, in dem es heißt, dass Gott, wenn der Beter nicht nachlässt, dem Gerechten  das zukommen lassen wird, was er braucht. Nicht nachzulassen heißt hier natürlich nicht, dasselbe Gebet immer wieder zu wiederholen. Es heißt vielmehr, darauf zu beharren, sein Leben im Glauben zu gestalten. Und im Glauben an Jesus Christus werden wir in einer Weise gerecht, wie es uns aus eigener Kraft gar nicht möglich ist. Und so werden wir ans Ziel kommen. 

Das also ist das Gebet: Es führt uns aus der Not, die wir im Leben erfahren, zu Gott. Die Zeit, die das Gebet benötigt, um die Wolken zu durchdringen, steht uns zur Verfügung, um uns immer mehr auf Gott hin auszurichten. Am Ende wird uns Gott das geben, was wir brauchen. Und das wird viel mehr sein, als das, worum wir ihn gebeten haben.

Pfarrer Heiner Bludau