21.03.2021 Testo della Predica - Predigttext


Dove e quando?


Domenica, 21 marzo 2021

ore 11


Judica

Giobbe 19,19-27

Foto: Lotz
Foto: Lotz

Wo und Wann?


Sonntag, 21. März 2021

11 Uhr


Judika

Hiob 19,19-27



Testo della Predica


Cara comunità!

La pandemia è un castigo di Dio? E se lo è, per quale reato ci siamo attirati questa punizione?

Non sono domande mie, ma l’una o l’altro se le pone senza dubbio. Un/una credente che si chieda quale sia la causa della pandemia può arrivare facilmente a questo punto.

Domande di questo tipo vengono poste ancora più sovente da persone che sono colpite individualmente da gravi colpi, che sia una malattia o un incidente, la perdita di una persona cara o la fine improvvisa di una situazione positiva nella vita raggiunta con grande fatica. “Che cosa ho fatto per meritare questo?” si chiede qualcuno.

Dietro c’è la domanda della giustizia. Le cose accadono in maniera giusta nella nostra vita e in questo mondo? Spesso siamo disposti a dare in fretta una risposta negativa a questa domanda quando siamo colpiti noi stessi dalla sfortuna nonostante ci fossimo sforzati di vivere in modo onesto. Forse ci esprimiamo con meno fermezza quando si tratta della situazione generale di vita degli abitanti del nostro pianeta. Infatti, se lo facessimo, dovremmo senz’altro ammettere di appartenere – nonostante tutti i problemi – a coloro che vivono in condizioni molto migliori della maggior parte della popolazione mondiale.

Comunque sia, tutte queste domande non sono nuove: vengono poste da quando l’uomo ha iniziato a riflettere su se stesso e la propria situazione; anche la Bibbia ne è piena e in essa si trovano anche diverse risposte a queste domande. La domenica odierna, Judica, fa riferimento proprio a questo: Fammi giustizia, o Dio, si dice all’inizio del 43° salmo che abbiamo pregato prima insieme. E questa supplica di giustizia ha dato il suo nome alla domenica.

E in che senso ci possiamo aspettare della giustizia da Dio? Nelle letture abbiamo già sentito varie risposte a questa domanda. Nel Vangelo dice Gesù di sé che “il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire, e per dare la sua vita per prezzo di riscatto per molti”. Gesù ha quindi impiegato la sua vita per riscattare noi esseri umani, noi che siamo ridotti in schiavitù o condannati a morte.

Questa è una bell’affermazione, ma che non è così facile da accogliere. Se ci deve davvero aiutare nella vita, deve arrivare nel nostro cuore. Evidentemente la cosa era già difficile quando Gesù era qui sulla nostra terra. Invece di sentirsi liberati da Gesù, i suoi discepoli hanno litigato su chi fosse il più grande fra di loro e chi nel Regno di Dio potesse sedergli accanto nella sua gloria. 

Nell’Epistola prima di ciò abbiamo sentito dire qualcosa di totalmente diverso. Lì si diceva di Cristo che “nei giorni della sua carne, con alte grida e con lacrime egli offrì preghiere e suppliche a colui che poteva salvarlo dalla morte”. Nemmeno Gesù quindi è andato incontro alla morte senza paura. Sotto questo aspetto egli si avvicina ancora molto di più a noi che con la sola affermazione che ci ha riscattati. Infatti così diventa chiaro che egli ha condiviso le nostre esperienze dolorose. Si dice poi in seguito che egli “è stato esaudito”. Non così però come si era augurato nelle sue grida, ma in modo molto diverso, cioè con la resurrezione dai morti.

La risposta alla domanda su come possiamo ricevere la giustizia di Dio è quindi piuttosto complessa. Il passo biblico previsto per la predica di oggi può apportare un importante contributo a comprendere meglio questa risposta. È tratto dal Libro di Giobbe, quindi da un periodo molto prima di Cristo. Prima di leggerlo vorrei ricordarne brevemente il contesto.

Giobbe è una figura che all’inizio del Libro viene ammirato da Dio: “Non ce n’è un altro sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Dio e fugga il male”, si dice di lui. Satana però sfida Dio sostenendo che Giobbe si comporta in modo così perbene soltanto perché sta così bene e perché Dio lo accompagna e lo protegge. Dio però non è della stessa opinione e permette a Satana prima di tutto di togliere a Giobbe ogni suo avere materiale e poi anche la sua salute. Satana fa tutte e due le cose e Giobbe siede quindi in mezzo alla cenere con “un’ulcera maligna dalla pianta dei piedi alla sommità del capo”. Eppure egli non si allontana da Dio.

Poi lo vanno a trovare tre amici. Originariamente sono venuti per esprimere la loro compassione e per consolarlo. Per quasi trenta capitoli si estende il dialogo tra di loro e Giobbe; e il dialogo diventa sempre più duro. Mentre Giobbe insiste nel dire di essere innocente, loro sostengono che non sia possibile. Una sfortuna come quella che ha vissuto Giobbe può essere soltanto espressione di castigo per un reato commesso.

Il passo per la predica di oggi è un punto cruciale in questo dialogo e in un certo senso riassume tutto il Libro di Giobbe.

Giobbe dice:  

Giobbe 19, 19-27

Tutti gli amici più stretti mi hanno in orrore,

quelli che amavo si sono rivoltati contro di me.

Le mie ossa stanno attaccate alla mia pelle e alla mia carne,

non m'è rimasta che la pelle dei denti.

Pietà, pietà di me, voi, amici miei,

poiché la mano di Dio mi ha colpito.

Perché perseguitarmi come fa Dio?

Perché non siete mai sazi della mia carne?

Oh, se le mie parole fossero scritte!

Se fossero impresse in un libro!

Se con lo scalpello di ferro e con il piombo

fossero incise nella roccia per sempre!

Ma io so che il mio Redentore vive

e che alla fine si alzerà sulla polvere.

E quando, dopo la mia pelle, sarà distrutto questo corpo,

senza la mia carne, vedrò Dio.

Io lo vedrò a me favorevole;

lo contempleranno i miei occhi,

non quelli d'un altro;

il cuore, dal desiderio, mi si consuma!

Alcuni punti in questo passo del discorso di Giobbe rimangono poco chiari ed enigmatici; hanno causato quindi diverse interpretazioni dei dettagli. La linea delle parole però è chiara e oggi viene intesa dagli esegeti in maniera unanime.

Dapprima Giobbe si lamenta, come aveva già fatto nei 15 capitoli precedenti. Il punto di riferimento concreto della lamentela questa volta è che egli sia totalmente da solo. Nei versetti precedenti descrive come tutti quelli con i quali lui altrimenti aveva a che fare gli abbiano voltato le spalle, compresa sua moglie. Egli lo riassume con le parole “Tutti gli amici più stretti mi hanno in orrore, quelli che amavo si sono rivoltati contro di me”. E per questa solitudine e situazione disperata si rivolge ai suoi amici e li supplica con le parole “pietà di me!” e ripete questa esortazione subito un’altra volta. Dietro si cela il desiderio che i suoi amici finalmente percepiscano la profondità della sua sofferenza che non consiste solo nell’essere mortalmente malato, bensì – forse ancor di più – di non essere cosciente di nessuna colpa, ma che i suoi amici invece lo credano colpevole di qualcosa. Egli si sente perseguitato da loro come da Dio.

Pietà! Questo è il suo primo tentativo di superare la sua miseria senza fine. Si rivolge con ciò ai suoi amici, sa però molto bene che non avrà nessun successo.

Per questo segue subito un altro desiderio: “Oh, se le mie parole fossero scritte!”. Dovrebbe essere almeno documentato come egli stesso giudica la sua situazione e che non si ritiene colpevole. Ma anche in questo punto gli diventa presto chiaro che nemmeno il suo secondo tentativo di trovare una via di uscita lo aiuterà davvero. Infatti, a che cosa gli può servire il fatto che le sue argomentazioni restino conservate se lui muore?

E così egli arriva al terzo tentativo di trovare una soluzione nella sua miseria: “io so che il mio Redentore vive”; “Io lo vedrò a me favorevole; lo contempleranno i miei occhi, non quelli d’un altro”; “il cuore, dal desiderio, mi si consuma!”. Soltanto Dio lo può aiutare in questa situazione, nessun altro. E anche se nei capitoli precedenti egli ha attaccato continuamente Dio e gli ha rinfacciato di trattarlo in maniera ingiusta, è rimasta la speranza che Dio si volga verso di lui e lo liberi dalla sua situazione disperata.

Delle interpretazioni precedenti partivano dal presupposto che qui Giobbe si riferisse alla sua vita dopo la morte. Sia la traduzione latina della Vulgata che la traduzione originale di Martin Lutero hanno trasmesso le parole ebraiche in questa direzione e anche la traduzione italiana può essere interpretata in questo senso. Il testo originale però non lo riporta. L’Antico Testamento in generale non parla di una vita dopo la morte, e anche qui la speranza di Giobbe si rivolge alla vita terrena.

E questa speranza si compie: negli ultimi capitoli del Libro di Giobbe gli parla Dio stesso dopo aver taciuto a lungo. E gli dà ragione e respinge l’argomentazione degli amici, nonostante questa corrispondesse appieno alla teologia del tempo. Questo è il messaggio decisivo del Libro di Giobbe: indipendentemente dal fatto se possiamo credere che Giobbe sia tornato davvero in salute e ad essere di nuovo benestante, egli ha trovato ad ogni modo una risposta che lo ha liberato dalla situazione difficile dalla quale era così tormentato.

E proprio questo è anche il messaggio degli altri brani biblici che abbiamo sentito oggi. Il 43° salmo che inizia con le parole “Fammi giustizia, o Dio” finisce con il versetto “Perché ti abbatti, anima mia? Perché ti agiti in me? Spera in Dio, perché lo celebrerò ancora; egli è il mio salvatore e il mio Dio”.

L’Epistola parla di come le preghiere e suppliche di Gesù siano state esaudite “per la sua pietà”. E nel vangelo Gesù dice di essere il riscatto per molti. Questo si può interpretare senza dubbio dalla prospettiva di Giobbe che dice “io so che il mio Redentore vive”.

 

A volte finiamo in vicoli ciechi e non sappiamo più come andare avanti. Allora spesso non sappiamo nemmeno a chi ci possiamo rivolgere per chiedere aiuto. Il messaggio della domenica di oggi però è il seguente: Dio stesso ci aiuterà se lo invocheremo. Proprio quando siamo consapevoli del fatto che LUI solo ci può aiutare, egli lo farà anche. Sebbene questo sia un altro modo di concepire la giustizia di quello comune, vale la pena seguirlo.

Pastore Heiner Bludau

Traduzione dal tedesco di Katia Cavallito

Foto: Lotz
Foto: Lotz

Predigttext


Liebe Gemeinde!

Ist die Pandemie eine Strafe Gottes? Und wenn ja, durch welches schuldhafte Vergehen haben wir diese Strafe auf uns gezogen? 

Das sind nicht meine Fragen. Aber der eine oder die andere stellt sie sich wohl. Wer nach der Ursache der Pandemie fragt, kann als Gläubiger leicht an diesem Punkt ankommen. 

Noch häufiger werden solche Fragen wohl von Personen gestellt, die als Einzelne von schweren Schlägen getroffen sind, sei es eine Krankheit oder ein Unfall, der Verlust eines lieben Menschen oder das plötzliche Ende einer mit Mühe erreichten positiven Situation im Leben. Womit habe ich das verdient? fragt sich dann so mancher.

Dahinter steht die Frage nach der Gerechtigkeit. Geht es gerecht zu in unserem Leben und in dieser Welt? Oft sind wir schnell bereit, diese Frage zu verneinen, wenn wir selbst vom Unglück betroffen sind, obwohl wir uns darum bemüht hatten, anständig zu leben. Weniger eindeutig äußern wir uns vielleicht, wenn es um die gesamte Lebenssituation der Menschen auf unserem Planeten geht. Denn dabei müssten wir wohl zugeben, dass wir – trotz aller Probleme – zu denen gehören, die sehr viel bessere Voraussetzungen angeboten  bekommen, als die Mehrheit der Weltbevölkerung.

Wie auch immer – all diese Fragen sind nicht neu. Sie werden gestellt, seit der Mensch begonnen hat, über sich und seine Situation nachzudenken. Auch die Bibel ist voll davon und in ihr finden sich auch verschiedene Antworten auf diese Fragen. Der heutige Sonntag „Judika“ nimmt genau darauf Bezug. „Schaffe mir Recht, Gott“ heißt es zu Beginn des 43. Psalms, den wir vorhin miteinander gebetet haben. Und diese Bitte um Gerechtigkeit hat dem Sonntag ihren Namen gegeben.

Und in welchem Sinn können wir von Gott Gerechtigkeit erwarten? Wir haben bereits in den Lesungen verschiedene Antworten auf diese Frage gehört. Im Evangelium sagt Jesus von sich, dass der Menschensohn nicht gekommen sei, „dass er sich dienen lasse, sondern dass er diene und gebe sein Leben als Lösegeld für viele.“ (Markus 10,45) Demnach hat Jesus sein Leben eingesetzt, um uns Menschen freizukaufen, die wir eigentlich versklavt oder zum Tode verurteilt sind. 

Das ist eine erfreuliche Aussage. Aber sie ist nicht so einfach aufzunehmen.  Wenn sie uns wirklich helfen soll im Leben, dann muss sie in unserem Herzen ankommen. Das aber war offenbar schon schwierig, als Jesus hier auf unserer Erde unterwegs war. Statt sich von Jesus befreit zu fühlen, haben sich seine Jünger miteinander darüber gestritten, wer denn von ihnen der Größte sei und wer im Reich Gottes neben ihm in seiner Herrlichkeit sitzen dürfe.

In der Epistel haben wir davor noch etwas ganz anderes gehört. Dort wurde von Christus gesagt, er habe „in den Tagen seines irdischen Lebens Bitten und Flehen mit lautem Schreien und mit Tränen vor den gebracht, der ihn aus dem Tod erretten konnte“. (Hebr. 5,7) Auch Jesus ist demnach nicht einfach furchtlos dem Tod entgegengegangen. In dieser Hinsicht kommt er uns noch viel näher als nur mit der Aussage, er habe uns freigekauft. Denn damit wird deutlich, dass er unsere schmerzhaften Erfahrungen geteilt hat. Es heißt dann weiter, er sei „erhört worden“. Aber wohl doch nicht so, wie er sich das in seinem Schreien gewünscht hatte, sondern ganz anders, nämlich durch die Auferstehung von den Toten.

Die Antwort auf die Frage, wie wir die Gerechtigkeit Gottes empfangen können, ist demnach ziemlich komplex. Der Bibelabschnitt, der für die heutige Predigt vorgesehen ist, kann zum besseren Verständnis dieser Antwort einen wichtigen Beitrag leisten. Er stammt aus dem Buch Hiob, also aus einer Zeit lange vor Christus. Bevor ich ihn vorlese, will ich kurz an den Rahmen erinnern. 

Hiob ist eine Gestalt, die zu Beginn des Buches von Gott bewundert wird. „Es ist seinesgleichen nicht auf Erden, fromm und rechtschaffen, gottesfürchtig und meidet das Böse“ (1,8)  heißt es von ihm. Der Satan aber fordert Gott heraus, indem er behauptet, Hiob würde sich ja nur deshalb so anständig verhalten, weil es ihm so gut ginge und weil er von Gott begleitet und beschützt würde. Gott aber ist nicht dieser Meinung und erlaubt dem Satan, Hiob zunächst allen Besitz zu nehmen und dann auch seine Gesundheit. Beides tut der Satan und Hiob sitzt somit „mit bösen Geschwüren von der Fußsohle bis auf seinen Scheitel“ (2,7) in der Asche. Dennoch geht er nicht auf Distanz zu Gott.

Dann besuchen ihn drei Freunde. Eigentlich sind sie gekommen, um ihr Mitleid zum Ausdruck zu bringen und ihn zu trösten. Fast über dreißig Kapitel zieht sich der Dialog von ihnen mit Hiob hin. Und er wird immer schärfer. Während Hiob darauf besteht, unschuldig zu sein, behaupten sie, dass das nicht möglich sei. Ein Unglück, wie Hiob es erfahren habe, könne nur Ausdruck von Strafe für ein Vergehen sein. 

Der Abschnitt für die heutige Predigt ist ein Höhepunkt in diesem Dialog und fasst in gewissem Sinn in wenigen Zeilen das ganze Buch zusammen.

Hiob sagt: 

(Hiob 19, 19-27)

Alle meine Getreuen verabscheuen mich, 

und die ich lieb hatte, haben sich gegen mich gewandt. 

Mein Gebein hängt nur noch an Haut und Fleisch, und nur das nackte Leben brachte ich davon. 

Erbarmt euch über mich, erbarmt euch, ihr meine Freunde; denn die Hand Gottes hat mich getroffen! 

Warum verfolgt ihr mich wie Gott und könnt nicht satt werden von meinem Fleisch?

Ach dass meine Reden aufgeschrieben würden! 

Ach dass sie aufgezeichnet würden als Inschrift, 

mit einem eisernen Griffel und mit Blei 

für immer in einen Felsen gehauen! 

Aber ich weiß, dass mein Erlöser lebt, 

und als der Letzte wird er über dem Staub sich erheben.  

Nachdem meine Haut noch so zerschlagen ist, 

werde ich doch ohne mein Fleisch Gott sehen. 

Ich selbst werde ihn sehen, meine Augen werden ihn schauen und kein Fremder. 

Danach sehnt sich mein Herz in meiner Brust. 

Manche Stellen in diesem Abschnitt der Rede von Hiob bleiben unklar und rätselhaft. Sie haben daher Anlass für unterschiedliche Interpretationen der Details gegeben. Aber die Linie der Worte ist eindeutig und wird heute von den Exegeten in Übereinstimmung verstanden.

Zunächst beklagt sich Hiob, so wie er es in den 15 Kapiteln zuvor auch schon getan hat. Der konkrete Bezugspunkt der Klage ist diesmal, dass er völlig alleine dasteht. In den Versen zuvor beschreibt er, wie alle Menschen, mit denen er sonst zu tun hatte, sich von ihm zurückgezogen haben, einschließlich seiner Frau. Das fasst er zusammen mit den Worten: „Alle meine Getreuen verabscheuen mich, und die ich lieb hatte, haben sich gegen mich gewandt.“ (V.19) Und aus dieser Einsamkeit und Not heraus wendet er sich an seine Freunde und fleht sie an mit den Worten „Erbarmt euch über mich!“ (V. 21) und wiederholt diese Aufforderung gleich noch einmal. Dahinter steht der Wunsch, dass seine Freunde endlich die Tiefe seines Leidens wahrnehmen sollen, das nicht nur darin besteht, dass er todkrank ist, sondern – vielleicht sogar noch mehr – darin, dass er sich keiner Schuld bewusst ist, seine Freunde ihn aber beschuldigen. Er fühlt sich von ihnen verfolgt wie von Gott.

Erbarmt euch! Das ist in diesem Zusammenhang sein erster Versuch, sein bodenloses Elend zu überwinden. Er wendet sich damit an die Freunde, weiß aber wohl, dass er damit keinen Erfolg haben wird.

Deshalb folgt sogleich ein anderer Wunsch: „Ach, dass meine Reden aufgeschrieben würden!“ (V. 23) Es soll wenigstens dokumentiert werden, wie er selbst seine Lage beurteilt und dass er sich nicht für schuldig hält. Aber auch an dieser Stelle wird ihm schnell klar, dass sein zweiter Versuch, einen Ausweg zu finden, ihm nicht wirklich weiterhelfen wird. Denn was sollte es ihm nützen, dass seine Argumente erhalten bleiben, wenn er selbst stirbt?

Und so kommt er zu dem dritten Anlauf, eine Lösung in seiner Not zu finden. „Ich weiß, dass mein Erlöser lebt.“ (V. 25) „Ich selbst werde ihn sehen, meine Augen werden ihn schauen.“ (V 27) „Danach sehnt sich mein Herz in meiner Brust“. (V.27) Nur Gott selbst kann ihm in dieser Lage helfen, niemand anderes. Und auch wenn er in den Kapiteln zuvor Gott immer wieder angegriffen hat, und ihm vorgeworfen hat, ihn ungerecht zu behandeln, so ist doch die Hoffnung geblieben, dass Gott sich ihm zuwenden und ihn aus seiner Not befreien werde. 

Frühere Interpretationen gingen davon aus, dass die Hoffnung des Hiob sich hier auf ein Leben nach dem Tod bezöge. Sowohl die lateinische Übersetzung der Vulgata als auch die ursprüngliche deutsche Übersetzung von Martin Luther haben die hebräischen Worte in dieser Richtung übertragen und auch die italienische Übersetzung kann man in diesem Sinne verstehen. Aber der Originaltext gibt das nicht her. Das Alte Testament redet generell nicht von einem Leben nach dem Tod, und auch hier richtet sich die Hoffnung von Hiob auf das irdische Leben.

Und diese Hoffnung geht in Erfüllung. In den letzten Kapiteln des Hiobbuches spricht Gott selbst nach langem Schweigen zu ihm. Und er gibt ihm Recht und weist die Argumentation der Freunde zurück, obwohl sie ganz und gar der damaligen Theologie entsprach. Dies ist wohl die entscheidende Botschaft des Hiobbuches: Unabhängig davon, ob wir glauben können, dass Hiob tatsächlich wieder zu Gesundheit und Wohlstand gelangt ist: Er hat jedenfalls eine Antwort gefunden, die ihn von der mentalen Bedrängnis, von der er so gequält wurde, befreit hat.

Und genau dies ist auch die Botschaft der anderen Bibelabschnitte, die wir heute gehört haben. Der 43. Psalm, der mit den Worten beginnt: „Gott, schaffe mir Recht!“ endet mit dem Vers: „Was betrübst du dich, meine Seele, und bist so unruhig in mir? Harre auf Gott; denn ich werde ihm noch danken, dass er meines Angesichts Hilfe und mein Gott ist.“ 

Die Epistel spricht davon, dass das Bitten und Flehen von Jesus erhört wurde, „weil er Gott in Ehren hielt“ (Hebr. 5,7) Und im Evangelium sagt Jesus, er sei das Lösegeld für viele. Das lässt sich durchaus in der Perspektive des Hiob verstehen, der sagt „ich weiß, dass mein Erlöser lebt“.

Manchmal geraten wir in Sackgassen und wissen nicht mehr, wie es weitergehen soll. Dann wissen wir oft auch nicht mehr, an wen wir uns wenden können um Hilfe zu erbitten. Die Botschaft des heutigen Sonntags aber ist: Gott selbst wird uns helfen, wenn wir ihn anrufen. Gerade dann, wenn uns bewusst wird, dass nur ER uns helfen kann, wird er das auch tun. Auch wenn dies ein anderes Verständnis von Gerechtigkeit ist, als das übliche, es lohnt sich, ihm nachzugehen.

Pfarrer Heiner Bludau